tag:blogger.com,1999:blog-68314230580067132422024-03-14T04:03:04.337+01:00cronache sentimentalii diari scapigliati della provinciaIlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.comBlogger23125tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-60944197193638867092017-04-30T07:29:00.001+02:002017-04-30T15:20:32.249+02:00La testa, le gambe, il cuore<div style="margin-bottom: .0001pt; margin: 0in;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;">"2017! Perché parlarne adesso? Nel 2017
avremo, che so, 50 anni!"<o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Dal sedile del passeggero dell'auto di mia madre, Claudio mi guarda sconvolto.
"Ilà, il 2017 è tra meno di 10 anni".<o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Non ho nessun motivo per ricordare questo dialogo, finito in una risata
collettiva e isterica, in coda sull'Appia, io alla guida, ognuno una sigaretta
in mano e dall'autoradio, come in tutto quel periodo, il testo brutto di "<i>sono
un pianista di piano bar...</i>". Eppure ce l'ho in mente oggi, che stando
alla mia notoria inettitudine matematica dovrei avere, <i>che so</i>,
cinquant'anni. E mi viene da ridere al pensiero di come ho sempre contato il
tempo in base a una misura fantasiosa della distanza, completamente scollata da
ogni ordine numerico e sempre invece riferita a quanto mi sembri intuitivamente
esotico e inimmaginabile ciò che è in là da venire, remoto invece quanto è già
stato. Forse conto il tempo con le categorie dei bambini, con il tanto e il
poco, il grande e il piccolo. Chissa se anche i bambini, come me, dimenticano
di pensare che esiste un presente.<o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Allora tra un'ora sono grande, secondo questo mio modo di vedere la vita. Tra
un'ora ho ventisette anni e mi scrivo una lettera da sola. Se non mi fosse
rimasta un po' di autoironia mi verrebbe naturale compatirmi. E magari sarebbe
il caso di farlo sul serio, se immagino Luca e Vito imbellettati al Gran Ballo
di non so cosa del Boston College e me qui a casa, che pretendo di studiare
Econometria, al termine di una giornata indolente o più sinceramente triste
come poche, posacenere d'ordinanza e noodles fritti portati a domicilio. Le
dieci di sera e tutto procede con il programmato livello di noia e
masochismo. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
A suo modo, l'immagine dei noodles fritti è evocativa. Per anni, imbattendomi
nei più vari film americani, mi sono chiesta per quale assurdo motivo i
personaggi girassero spesso con dei thermos e mangiassero cibo cinese da
scatolette di cartone, in stanze da letto probabilmente appestate da aromi potenti,
per quanto buoni, di cipolle e salsa di soia. Oggi ho capito che quello che mi
sembrava uno stereotipo irreale è proprio vero: l'America è un posto senza
tempo, o dove questo si misura in termini di efficienza, di produttività. E io,
che ho girato per mesi col mio thermos di caffè, prima di sfracellarlo al suolo
e sostituirlo con una più normale tazza, e che ho mangiato spaghetti fritti in
camera mia da una scatola di cartone, studiando cose e pensando che avrei solo
voluto scrivere, ecco io sono diventata lo stereotipo che mi faceva ridere da
un lato, dall'altro mi inquetava profondamente. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Il tempo mi manca. E mentre scrivo penso che proprio a sinistra di ciò che sto
scrivendo campeggia questa specie di dichiarazione di intenti, o di testamento
emotivo, di Miriam Mafai. "Corri bambina, corri, tu che hai buona la
testa, le gambe e il cuore". Per tanto tempo e in tutte le stanze di tutte
le case che ho abitato, ho portato con me il foglio dove avevo trascritto
questo pezzo bellissimo, e tante volte ho attaccato lo scotch dietro la carta
sempre più invecchiata, e dallo scotch al muro sulla scrivania o sul comodino,
e dal muro ai miei occhi, spesso, quelle parole, quell'invocazione o
quell'augurio: corri bambina, corri... Parole lette tanto di frequente da
diventare un mantra, che so a memoria ma che oggi mi lascia perplessa.
Contrariamente alla favola progressista delle ambizioni e dei sogni e della
possibilità reale che si avverino orizzonti idealizzati, oggi vorrei puntare i
piedi, immobilizzarmi, avere qualche minuto solo per domandarmi: dove stai
andando, bambina, e perché? <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Sono contenta, ma sono anche stanca, sono anche tesa, nostalgica e altalenante.
Penso a quante cose ho già fatto da quando sono qui, in questo Paese coi tram
troppo lenti e i maratoneti troppo veloci, ed è difficile realizzare di non
aver concluso proprio niente, ancora. Non dicono a caso che il dottorato è come
una maratona, che bisogna davvero imparare a dosare il respiro, per non cadere
a un passo da ognuna delle tante piccole mete che raggiungi più o meno
dignitosamente a scadenze costanti e a frequenza media. Ma dosare il respiro
richiede un grande autocontrollo, una straordinaria fiducia in se stessi, un
certo menefreghismo e una buona dose di pragmatismo, nonché parecchia stabilità
emotiva. Di tutte queste caratteristiche non credo di averne alcuna che sia
sviluppata anche lontanamente rispetto al livello che sarebbe importante che io
avessi oggi, qui. Poco male, insomma, provo a gestirmi con tutto il disordine
della mia ansia e il turbinio dei miei pensieri, che mi riportano dal <i>generalized
method of moments</i> direttamente alla faccia di Claudio a diciott'anni,
dentro la mia macchina, e all'eco delle nostre risate. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Così decido di fermarmi davvero, seguendo il consiglio che mi è stato dato più
spesso, in varie forme, nella mia vita, in definitiva sommamente riassunto dal
grande motto di mio padre: <i>prima la salute</i>. Mi fermo e scrivo, e
penso alle banalità. Penso che strano avere avuto diciott'anni proprio ieri, e
ventidue per un attimo e all'improvviso ventisette. Penso a quella pagina
terribile di Julian Barnes, sulla vita idealizzata nelle speranze
adolescenziali e gradualmente trasformatasi in una vita tra tante vite tutte
molto uguali. Penso all'eroismo a cui ho sempre aspirato e che per troppa paura
non ho mai avuto, e a tutte le persone a cui l'ho forse invidiato. Penso a
Giulia che sa guardare il suo destino dritto in faccia, ad Armanda che è capace
di adattare il tempo alla sua volontà, a Nicoletta che invece nel tempo si
incastra e senza mai scomporsi si fa piccola per districarsi tra le reti di
mille impegni. Penso ad Alice che ha il coraggio di cambiare tutto, e a
Francesca che ha la maturità di sapere perfettamente cosa può cambiare e
quando. Penso a Tiziana che al tempo non ci pensa, che il tempo lo vive, con i
piedi per terra. Penso allo stoicismo infinito di Berk. E poi penso a me che
scrivo e non mi voglio compiangere perché, da una citazione magistrale di mia
madre "<i>non è che stai davanti agli altiforni</i>". E proprio
mentre ripenso a questa frase mi domando perché nella mia famiglia, saldamente
impiantata in una zona del mondo dove il novanta percento della popolazione è
impiegata nel settore pubblico e il restante dieci percento ha probabilmente un
bar o un negozio di scarpe, sia sempre aleggiato questo mito proletario da
grande balzo in avanti.<o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Mia madre, mio padre, penso a loro più spesso da quando sono <i>all'America</i>.
A volte mi vengono in mente delle foto, o dei pezzi di lessico famigliare.
Nell'ultimo periodo mi trovo a ripetermi spesso, con le parole di mia madre,
che dovrei smetterla di fare il <i>rabdomante di sentimenti</i>, che poi è
il volto socialmente accettabile o appena appena colto della figura legendaria
del <i>Tafazzi cosmico;</i> altre volte, prevedendo l'arrivo di uno
dei miei classici borbottii emotivi, mi dico, con mio padre, che <i>non
devi correre il rischio di crogiolarti</i>. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Non li sto vedendo invecchiare, frase che farebbe accapponare la pelle a
entrambi, con le dovute distanze e differenze. E certe volte mi chiedo se tutta
questa lontananza valga proprio la pena, se tutto questo tempo di corsa sopra
la vita sia poi usato bene. E certe volte non ho una risposta, certe volte mi
dico che non è vero quello che dice Miriam Mafai, mi dico che è giusta la
nostalgia del tempo della lentezza e della protezione e che è ingiusta la
Storia a non permettere questa lentezza, o a renderla possibile al prezzo della
rinuncia a qualche desiderio o qualche ambizione. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Ma un attimo dopo mi viene in mente che stare qui a biasimare la Storia ha un
ché di parecchio immaturo, che alla fine dei conti tutta questa lagna
piccolo-borghese magari nasconde un atto di vanità più che un tentativo di fare
chiarezza su di me, che forse ha ragione chi con una certa durezza di spirito
mi ripete costantemente che la mancanza di tempo <i>is your choice</i>. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
In fondo non ricordo che esame stessi preparando la sera che Hollande vinse le
elezioni cinque anni fa, ma ricordo nitidamente me e Giulia abbandonare i libri
nel mio salotto di sei metri quadri, prendere in corsa un treno della <i>ligne
quatre, </i>cambiare a un certo punto, ritrovarci à <i>Bastille</i>,
incontrare nella massa il classico vecchio compagno francese che mi regala la
bandiera del <i>Front de Gauche, </i>ricordo perfettamente tutte le
assurde comiche di quella sera di festa. Il commento politico su Hollande me lo
risparmio, non è questo il punto. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Il punto è la vita che passa nel frattempo, che vorrei essere capace di vivere
standoci dentro e non guardandola da fuori, il punto è l'orchidea che ho
chiamato Stoner in onore del meno eroico degli eroi di tutti i libri del mondo,
mio paladino personale e meraviglioso, povero ma giusto uomo immaginario. Il
punto è che per quanto maldestramente Luca possa aver spezzato l'unico ramo
fiorito di Stoner nel tentativo di passare l'aspirapolvere, nel giro di due
mesi lei si è fatta crescere due nuovi rami, su cui ora sbocciano fiori di
nuovo all'improvviso. E al di là del fatto che la metafora del fiore è più
usurata dell'associazione gabbiano-libertà nelle vecchie canzoni pop italiane,
il punto sono io che torno a casa e guardo Stoner, controllo che abbia la luce
adatta, la faccio crescere come posso e un po' ammiro questa piccola cosa
fragile e immobile, ma pure viva e potentissima.<o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Il punto è che ho ventisette anni e certe volte me ne sento duecento, come i
vecchi che si lamentano di ogni cosa perché non riescono più a capirla, e certe
volte me ne sento ancora dieci, come gli anni che avevo quando mio padre mi
disse che <i>forse è in te uno spirito cristiano, forse somigli di più a
Caterina da Siena che a Dolores Ibarruri</i>. Rido da sola come una scema,
pensando a questa scena vera e insensata e alla serietà con cui ascoltavo le
parole di mio padre associandole per assunto al Vero, e alla serietà con cui
lui mi spiegava il suo punto, convinto che io potessi capirlo
perfettamente. <o:p></o:p></span></div>
<div style="margin: 0in 0in 0.0001pt;">
<span lang="IT" style="font-size: 13.5pt; mso-ansi-language: IT;"><br />
Allora credo che mi serva quella fiducia di nuovo, la fiducia immacolata dei
miei dieci anni, l'idealismo assoluto dei miei diciassette, lo stakanovismo dei
miei venti, il coraggio dei miei ventidue, l'allegria e insieme la forza che
avevo un anno fa. E mi auguro da sola di trovare tutto questo di nuovo, di
riunirmi con tutte le persone che sono e che sono stata, che oggi mi fanno
un'infinita tenerezza, che vorrei incontrare con la consapevolezza di adesso
solo per dire loro di non preoccuparsi troppo perché, che corrano o no, hanno
buone la testa, le gambe, il cuore.<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-2118082085828801212016-08-07T13:22:00.002+02:002016-08-07T13:22:12.830+02:00C'era una volta in America<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">Passate le mie prime ventiquattro ore a Boston, mi arrogo il diritto di fare una di quelle cose per cui vado pazza: il bilancio.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">Avrei voluto farlo prima di partire, in realtà. Avrei voluto scrivere a molte persone moltissime cose e trovare il tempo per pensare regali più belli, poi prendermi un altro tempo per razionalizzare la partenza da Bologna, scattare magari una foto a Piazza Maggiore, con la luce caldissima e netta che c'era l'ultima volta in cui l'ho vista prima di andar via, e tatuarmi addosso l'atmosfera vitale e la mania che tutto sia collettivo, che nonostante le ingiurie del tempo e di una certa politica la città conserva ancora.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">Avrei anche voluto parlare di Formia, di come mi sembra di essermi ripresa il mio rapporto con la città, recuperando tracce di passato e riscoprendo l'allegria che si prova nel ridere di quegli aspetti caratteristici del posto in cui si è nati che forse ci si è lasciati alle spalle, ma che in fin dei conti ci appartengono profondamente. Oggi che non scappo da nessuna parte, oggi che vado verso e non via da, mi sento come ricongiunta con me, con il mare guardato sempre in faccia e con i lavori pubblici, con il traffico infernale dell'Appia e con lo spettacolo dell'Ariana e con le birre bevute nei posti conosciuti da sempre. </span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">E con tutti questi condizionali passati alla fine non ho scritto niente, forse i pensieri erano troppi e confusi e mischiati in un sacco di anni e in uno in particolare, questo, densissimo e irriducibile. Non ho scritto niente e ho portato via poco, peraltro pentendomi di non essermi portata dietro più romanzi dei tanti che già a forza ho infilato in valigie troppo pesanti. Guardando la mia libreria, mi ritrovavo a fissare, nei giorni dei preparativi selvaggi, Un'Isola, L'Isola riflessa e L'Isola di Arturo. Li ho mollati dov'erano, colpevoli di essere stati già letti e forse pensando che fosse un cliché troppo usurato, quello della persona che parte e senza un minimo di modestia si immedesima in tutti gli Ulisse del mondo e della Storia, e in infiniti nomadi, viandanti e marinai. Ma io, che come dice qualcuno sono nata col mare in faccia, nuoto con pessimo stile e metto nelle valigie i fiori finti e i biglietti che altri hanno scritto per me e un sacco di scarpe inadatte ai percorsi lunghi. E ho un padre che pedissequamente mi accompagna ai check-in degli aeroporti e che, con un oceano in meno da attraversare e forse con in meno anche qualche anno, ci scommetto che mi avrebbe proposto di trasferirmi a Boston facendo il trasloco in auto, come in effetti accadde quando per un po' di mesi andai a vivere a Parigi. Per cui non sono nomade né viandante né marinaio, con buona pace delle etichette romantiche che tanto mi piacciono; sono come i tanti che per i motivi più vari ogni tanto cambiano il posto in cui vivono, e fine della storia. </span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">Capita così che, in questa specie di normalizzazione forzata della partenza, fatta di pochi saluti rituali sulle porte o alle portiere, e di un sacco di ingiustamente rapidi ciao dispensati nei parcheggi o alle fermate degli autobus, davanti a un tabacchi, in un ufficio postale, o in una coda ai controlli dell'aeroporto di Fiumicino, la realizzazione della portata dell'evento ti cade in testa nei modi più strani. Nel mio caso, </span><span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">confesso, il colpo di grazia me l'ha dato ascoltare Calcutta che canta che presterà i suoi soldi a qualcuno per andarlo a trovare. Per quanto mi faccia uno strano effetto piangere per una canzone che in un verso recita "vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo", la storia dei soldi rende conto della distanza, e dunque fa breccia. Uno realizza quanto è lontano quando si accorge di stare in un posto in cui non atterra Ryanair, dove la valenza della Carta di Identità Italiana è drammaticamente prossima allo zero e in cui, alla frontiera, dimostrare di essere una persona a modo non è per niente una formalità. Così, con tutti i politically-correttissimi distinguo, pensando a quanta gente vorrei prestare dei soldi per venirmi a trovare, quando in preda al jet-leg ieri mattina (come anche oggi) mi sono alzata alle quattro e, non riuscendo ad addormentarmi, sono andata in balcone a fumare, mi sono sentita un po' esule. </span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">Per evitare di crogiolarmi nella strana stanchezza del volo e in innumerevoli malinconie, ho allora messo in atto le mie solite strategie di sopravvivenza: togliere i libri dalla valigia, posizionarli su un comodino di fortuna. In pratica ricostruirmi il nido. E poi sono andata a cercare un posto in cui consumare Il Sacro Pasto, ovvero la colazione. A quel punto, bevendo un cappuccino che poteva essere considerato "regular" solo con le categorie dimensionali di un vatusso e mangiando con una certa goduria un pain au chocolat altrettanto gigante e probabilmente fatto di solo burro, è finalmente iniziata la mia prima giornata bostoniana. Ne ho ricavato una serie di considerazioni che elencherò qui. </span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">1- Ad una prima impressione, questi americani sono gente simpatica. Mi chiedo se non siano consapevoli di quanto ti fanno penare per toccare il loro stesso suolo, da muoversi a pietà una volta che ce l'hai fatta. Comunque... abituata a tante inutili spocchie nazionaliste, regionaliste e comunali, tipiche di ogni pertugio d'Europa, mi sono ritrovata per mezza mattina ad aggirarmi nei posti parlando come se dovessi scusarmi di esistere. Senza senso ho ricavato sinceri complimenti dal barista di turno per la fattura del mio zaino di pelle; vive scuse se mi chiedeva di ripetere ciò che avevo detto da un pover'uomo a cui avevo chiesto, senza farmi capire, indicazioni stradali; risposte casuali a domande che non avevo posto, forse date in un tentativo estremo di non farmi pesare il fatto che devo migliorare il mio Inglese; parecchi "how are you doing today"e welcome to the United States, in Town, in the Neighborhood, a seconda della situazione; in generale, direbbe Nicoletta, sorrisoni.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">2- La questione del rapporto di questo Paese con il fumo è dirimente, ma in fondo fino a un certo punto. Posto che ogni casa è dotata di rilevatori anti-incendio e che è strictly forbidden fumare nei parchi pubblici, per il resto fumare si può. La condizione per farlo è essere disposti a tollerare il biasimo, anche abbastanza civile e silenzioso, delle persone che per strada ti lanciano occhiate piene di giudizio e di voglia di redimerti dal tuo orrido vizio. Ci sono poi alcune zone franche: agglomerati di panchine su marciapiedi larghissimi, dove ogni tanto qualche poverello come me si siede e fuma, conscio di poterlo fare per via del segnale chiaro dato dalle cicche di sigaretta già in terra. Nel resto della città le cicche non esistono. Ad ogni modo, io le mie cicche le buttavo nel pacchetto vuoto di filtri rizla che mi sono portata con tanto zelo appresso per tutto il giorno, e che mi ha appestato lo zaino di pelle suddetto.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">3- Ed eccoci alla seconda zona franca. Il North End, in quanto (gigantesco) quartiere italiano, è una specie di isola felice in cui chiunque fuma ovunque con buona pace dei passanti puritani, si paga solo in contanti e si festeggiano le feste dei santi. Ieri c'era tutta una fiera di Sant'Agrippina, con tanto di bancarelle di fried calamari, luminarie su Hanover Street e palco per il cantante neomelodico-americano di turno. Il North End è italiano davvero, e largamente terrone, dunque Sant'Agrippina è un fatto serio e le feste popolari(a breve quella di Saint Anthony from Padua de Montefalcione), amatissime dai veri yankee e dai turisti, sembrano proprio un disperato tentativo di recuperare le proprie radici. Così come lo sembra il libro "La cucina di Gaeta", illustratomi dall'amabile proprietaria di una piccola libreria italo-americana di quella zona, dove ho comprato la Settimana Enigmistica e mi è stato offerto un caffè che non era male, nonché cibo, accoglienza, numeri di telefono nel caso io voglia fare delle chiacchiere... Parlando con Lisa e notate le sue premure, ho fatto pace con l'idea che potrei avere dei momenti di cedimento. E sapere di avere una specie di casa-famiglia in cui sono stata accolta con tanto fasto, piena di libri di Camilleri e di Elena Ferrante, mi piace molto. Se mi viene da piangere vado da I Am Books. E tornerò a Little Italy ogni tanto, ho il dubbio fondato che potrei avere bisogno di pasta De Cecco e biscotti Doria, diciamo una volta ogni paio di mesi.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">4- Boston è intimamente convinta di essere una piccola città, il che è vero considerando che il centro storico si gira a piedi senza alcuna fatica, ma la vita vera si snoda nei sobborghi, ex cittadine ormai inglobate nel tessuto urbano fino a farne parte completamente. Nonostante ciò, Boston praticamente non ha una metropolitana. O meglio, quella che loro chiamano metro è in realtà un tram di due vagoni, che nell'approssimarsi al centro scende sotto terra. Il mitico bus 14 da non so dove a Pilastro, che passava sotto casa mia a Bologna, è nettamente più grande dei treni della Green Line. Chissà quanto avrebbero da ridire i miei bolognesi sui trasporti di Bostonia. Comunque, di tram ne passano a fiotti e il fatto che siano piccoli e in fondo lenti mi trasmette un senso di umanità che non mi dispiace.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">5- Boston è anche intimamente convinta di essere una città di mare, che poi è vero. E' una città di fiume, di laguna e di Oceano: la geografia fisica americana è delirante. Pertanto la zona del Waterfront, quello che possiamo chiamare il gigantesco lungomare o il molo, è piena di bei palazzi col tetto piatto e larghi balconi imbastiti di tavolini in ferro battuto e piantine di rosmarino. Mi domando che fine facciano le piantine e gli stessi balconi, nei lunghi inverni di neve e di ghiaccio. Mi domando anche come si faccia a usare un balcone se il tuo appartamento è al 24esimo piano, ma questo è perché soffro le vertigini. Comunque nel Waterfront ho già trovato un paio di papabili case della mia vita per il giorno in cui avrò dei soldi.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">6- Gli unici convinti che Boston sia grande sono i turisti tedeschi, che infatti apprezzano girare la città su enormi autobus aperti che però non sono autobus ma strani veicoli a forma di imbarcazioni d'assalto con sotto delle ruote. Chiccherie.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">7- Per un mendicante, che solitamente è semplicemente un disoccupato a cui è andata particolarmente male, la strategia vincente per ottenere fondi consiste nel minacciare, verbalmente o per iscritto, di votare Trump in caso di mancata offerta. Se poi lo fa piazzandosi sotto il balcone da cui per la prima volta nella storia è stata letta la Dichiarazione di Indipendenza, allora restare impassibile per un chicchessia viaggiatore europeo diventa impossibile.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">8- Il trash non ha confini e come i centurioni davanti al Colosseo, qui si potranno osservare esemplari di guide turistiche travestite da Sons of Liberty o da Padri Pellegrini che girano per strada in abiti settecenteschi senza che la loro autostima faccia una piega. Sullo stesso tema, vedrai circa 23 damigelle attraversare la strada a gruppi di 4/5 per volta, tutte con lo stesso abito allo stesso matrimonio. </span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">9- Niente dà la sensazione di stare in America quanto: i mattoni rossi, le finestre che si aprono facendole scorrere verso l'alto, i dipendenti che fanno pausa nei retrobottega e quei vicoletti senza uscita tra un palazzo e l'altro, con le scale antincendio e i bidoni del rusco e il fumo che esce dalle cucine dei ristoranti, che in un attimo sembra di stare in C'era una volta in America o in Colazione da Tiffany, a seconda dell'ispirazione del momento.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">10- Di tutti i patrioti che da Boston hanno fatto esplodere la Guerra di Indipendenza, il più venerato è il tizio che partì da casa sua a cavallo per avvisare dell'arrivo dell'esercito britannico. Credo si chiami Peter Merere o qualcosa di simile e faceva l'incisore.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">11- In effetti gli hamburger sono buoni.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">12- Il senso di questi americani per le misure è per me ignoto. Perché ad esempio, deve esistere una moneta da 25 centesimi, ovvero da "quarter of dollar"? Poiché non riconosco le monete, continuo ad accumularne e a pagare la qualsiasi con banconote da 10.</span><br />
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;"><br /></span>
<span style="color: #4c1130; font-family: "times" , "times new roman" , serif;">13- Farmacie grandi come supermercati con insegne enormi, café fuori misura, palestre a sei piani, negozi sportivi immensi. Ma non troverai un supermercato. Forse, nel tuo quartiere c'è un grocery store, dove entrerai per fare un minimo di spesa e dove, guardando l'extra virgin olive oil di Zio Franco, che comprerai pure se sembra e forse è olio di semi, avrai il tuo primo, inaspettato crollo. I grocery stores sono anche loro strani e non tanto perché la pasta in vendita è fatta col grano tenero, queste sarebbero osservazioni per soli italiani, ma perché ti domandi quali prodotti tra tutte le incomprensibili pappette e i pudding precotti un americano standard comprerà per nutrirsi. Insomma, perché i frigo pullulano di bevande di ogni genere e il banco verdura è composto da 4 pomodori, 1 pianta di insalata e 3 peperoni verdi? E perché mezzo chilo di riso costa 4 dollari? E perché ci sono una ventina di tipologie di patatine fritte in busta e quando si tratta di biscotti, di fronte a te, la miseria? La mia prima esperienza all'alimentari, nonostante la festa-festona che mi ha fatto il proprietario vedendomi entrare nel suo negozio due volte in un giorno, è una storia un po' mesta di caffè solubile e cibo di base. Olio, riso, pomodori, uova e tranquillo papà, anche un minimo di altro. Ho comprato 12 uova perché le confezioni più piccole non esistono. Sbalzi di colesterolo e una morale della favola: dal rapporto qualità prezzo è chiaro che in questa vita berrò un sacco di latte. Uscendo, ho comprato una lattina di limonata San Pellegrino e una bottiglia di Evian, forse per nostalgia o per ricordarmi che un po' di bellezza esiste.</span><br />
<br />
baci e big hello,<br />
<br />
IlariaIlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-35152878846509618322013-10-05T23:06:00.003+02:002013-10-06T17:35:47.213+02:00Alla tua malinconia sghemba<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Andarsene dove, con
cinque euro di benzina? <o:p></o:p></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/17fW62sAV7U?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Gli irrequieti si pongono
queste domande, se le pongono gli idealisti, i provinciali. Loro, poi, si
chiedono sempre dove andare per trovare il mondo, abituati –e costretti- come
sono, a confrontarsi con una realtà piccola piccola; provinciali che conoscono
come le proprie scarpe i muri vecchi di città invisibili, le scritte con le
bombolette su casermoni logori, la solita birra del bar vicino casa, i cani
randagi a cui hanno dato un nome… <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">E forse è l’abitudine a
quei posti risaputi e usuali, o forse è quella sensibilità tutta umana che
chiamiamo curiosità, a spingerli a
cercare altro, un luogo che risponda alle loro domande, o dove almeno qualcuno
sappia fare il caffè.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Questo cerca Matteo, un
posto altro dove non ci siano <i>baristi che
hanno fatto corsi di barman ma che poi ti fanno una chiavica di caffè che
dovresti solo sbatterglielo in faccia</i>; e in questo desiderio tanto terreno
c’è una voglia di volare ad alta quota, di andarsene a vedere le cose da
lontano così che appaiano più chiare o pacificate, chissà. Ed Emanuele, tramite
Matteo e con lui, va a cercare quella medesima libertà. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Così, la scoperta triste
del progetto dell’Alfa di fabbricare un SUV diventa una scusa decente per
mettersi in macchina e andare… Dove? <i>Altrove</i>… </span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br />
Ed eccoli là, quattro amici che si sanno a memoria, tutti e quattro e ciascuno
a suo modo di una <i>malinconia sghemba</i>,
in una macchina con cinque euro di benzina, Paolo Conte come necessario
sottofondo.<br />
<br />
Ma dove ve ne andate se dietro di voi ci sono le montagne e gli alberi morti
per vecchi roghi estivi e il neon della statua del Cristo Redentore? Dove ve ne
andate se davanti a voi c’è il mare, quello in cui si è perso il vostro
sguardo, il mare grande da scrutare, mare lontano che piace immaginare libertà
e che invece è limite invalicabile, compagno e confine, che spalanca la vista e impone orizzonti finiti?<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">A questo non pensano mentre vanno, mentre scivola come una ninnananna nelle orecchie <i>Genova per noi che stiamo in fondo alla
campagna</i>… Vanno e basta. Vanno a Sperlonga, sulla spiaggia, a Itri, a domandarsi
in silenzio chi sono, a lanciare i sassi nel mare, a saltare dai gradini e a
dormicchiare sulle panchine sotto un tramonto rosa. Soprattutto, con romantica superbia, vanno a
chiedere il cielo di togliersi il cappello davanti alle loro gioiose ambizioni,
davanti alla loro profondità. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">E mentre il motore gracchia,
mai nominato apertamente è il senso del viaggio, il dilemma di sempre, ad
aleggiare sullo sfondo. Perché scappare, e da cosa, se poi in fondo il caffè
non era male, se poi c’è una bellezza immensa, anche, nelle cose piccole? Che
senso ha cercare spasmodicamente la grandezza, se poi la grandezza sta nel
cogliere la meraviglia nei fatti che ci capitano, nelle persone che ci
circondano, nei rapporti sinceri, negli sguardi complici, nei desideri comuni?
E se tutto il meglio fosse già qui?<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Quella dei ragazzi nella
macchina col serbatoio in riserva non è arrendevolezza ad un presente dato, ad
un futuro scontato. Il loro non è provincialismo. Il loro sguardo è quello
vispo di chi ha guardato il mondo, si è sforzato di capirlo e forse ne ha colto
l’inganno e a quell’inganno si rifiuta di soggiogarsi e così si ostina a vivere per
com’è, a schiena dritta e come desidera, senza imporsi altro al di là di un buon caffè. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div align="right" class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<span style="color: #4c1130;">.<o:p></o:p></span></div>
<div align="right" class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<span style="color: #4c1130;">Ilaria<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div align="right" class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<i><span style="color: #4c1130;">Grazie a te ho una barca da scrivere<br />
ho un treno da perdere<o:p></o:p></span></i></div>
<div align="right" class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<i><span style="color: #4c1130;"><br /></span></i></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<span style="color: #4c1130;"><i>p.s. Lettori, miei cari, cliccate su questo link( </i></span><span style="color: #4c1130;"><a href="http://vimeo.com/32194895">La Comédie d'un Jour</a>,<i> vincitore del </i> </span><a href="http://www.caffe-corto.com/">Corto Moak 2013</a> )<i style="color: #4c1130;">per guardare un cortometraggio che dura quanto due canzoni di Guccini, o quattro canzoni di qualunque autore normale. Sono tredici minuti di cui non vi pentirete, se vi andrà. </i></div>
IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-25559498308543100032013-10-02T19:45:00.000+02:002013-10-02T19:45:57.440+02:00Scissione all'interno del PDS: la poesia del lapsus della giornalista di La 7Il PDL muore, il PDL si
sfalda, si lacera. Si esaurisce la spinta propulsiva del PDL. Scissione dei
moderati, separatismi dei ciellini, divisionismi di ex craxiani. Nascono nuovi
gruppi parlamentari, o forse no, o si. La fiducia non si vota, ma alcuni lo
faranno (maledette colombe), allora dai ripensiamoci tutti, si dai votiamola.
Berlusconi vota la fiducia. Il dramma umano di Bondi è evidente, uno stato di
profondo nichilismo lo attanaglia: che fare? Che pensare? Il tabù Berlusconi ha
ucciso il totem di se stesso. Si direbbe che al posto dell’atteso parricidio un
autentico suicidio politico si sia verificato. Un gran trambusto di servizi ed
inviati specialissimi vessati dai rispettivi direttori dei TG. Domanda Mentana,
davvero emotivamente coinvolto: “Quali sono gli ultimi <i>boatos </i>da Palazzo Madama?”. In giornate così, quando la politica
diventa pettegolezzo, vociare indistinto, anche il neologismo è arte.<div>
<br /><div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Berlusconi si è
arreso ad Alfano, il vecchio ha ceduto il passo al giovane e volendo si
potrebbero mettere in fila chilometri di metafore imbarazzanti sui delfini e
gli adolescenti con le chiavi di casa e altre infinite banalità. La linea
politica degli strenui difensori del nostro anziano eroe ha perso; la battaglia
corpo a corpo delle pitonesse e dei falchi contro i mulini a vento degli ostili
al capo sembra essersi esaurita in un niente, o meglio in poche frasi del capo
stesso, che in due minuti scarsi, come a volersi togliere il prima possibile
dall’impaccio, dal basso del suo scranno si rimangia tutti gli attacchi, gli sproloqui e le
manifestazioni un po’ paranoiche dei giorni scorsi e si decide a sostenere
Letta. Si sarà accorto che la sua vera fine politica sarebbe stata causata da una
odierna sconfitta numerica. Meglio evitare uno scontro frontale se ci si
riconosce più deboli del nemico interno, meglio rientrare nei ranghi e
aspettare. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
Tutto questo non è poi tanto interessante.</div>
<div>
<br /><div class="MsoNormal">
Però si ascolta un
discorso di Letta che ammicca alla destra, e pure al suo vecchio leader azzoppato, che quasi quasi gli diventa
complice, sottintende vicinanza, che di <i>irricevibile</i> e <i>non-votabile</i> dal beneamato Caimano non ha proprio niente. Anzi, si
ascolta un discorso retorico e farcito di una morale fuori luogo, di nomi fuori
luogo, altisonanti, troppo, rispetto al momento di oggi, come a volerne
sopravvalutare la gravità. Sarà per la convinzione di essere investito da un
compito tanto sovrumano, che Letta presenta se stesso come l’uomo in grado di
restituire all’Italia una grandezza che, pur essendo stata la nostra storica
ossessione, non abbiamo mai avuto. E per questa convinzione Letta si sente
unico responsabile, unico salvatore ed ha acquisito una fiducia nella propria
capacità politica che fino a cinque mesi fa sembrava impensabile. Sarà per
questo motivo che rivendica con fierezza le borse di studio per i conservatori
e tace candidamente sugli inutili battibecchi sull’IMU, sul macroscopico
problema dell’aumento dell’IVA, sulla triste latitanza di un vero dibattito
parlamentare sulla legge elettorale...<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E così traspare
finalmente in modo netto, dalle parole di Letta, dalle sue incrollabili certezze, che il governo che era stato
presentato qualche mese fa come temporanea soluzione ad un irrisolvibile e
contingente problema di ingovernabilità, oggi si pone come governo
autenticamente politico, del tutto legittimato a governare per un orizzonte
temporale ben più vasto di quello inizialmente indicato. Questo è un fatto interessante. Anche vagamente inquietante, in realtà.</div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
La mia sensazione è che oggi, piuttosto che perdere tempo a parlare della sconfitta berlusconiana, che poi mi pare del tutto marginale, si dovrebbe discutere di quanto nel giro di poco tempo
questo governo abbia aumentato nei fatti i suoi compiti, di come questa
evoluzione sia stata accompagnata da un progressivo addormentamento dell’opinione
pubblica, di come la pacificazione tanto decantata sia in realtà una spaventosa assenza di vivacità intellettuale da parte di una cittadinanza sempre più passiva, di come siamo arrivati a dare per scontato che esistano comitati di
saggi a proporre pacchetti di riforme che solo in apparenza possono essere
spacciate per oggettive e necessarie, di come accettiamo di delegare infinito potere sulla base di uno stato di necessità da
cui non usciamo da tre anni, che allora diventa un periodo di necessità, un
periodo destinato a durare. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E durerà, questo governo,
perché fa comodo e finché farà comodo; perché concede tempo a chi necessita di tempo: alla destra, che promuove le sue
politiche restando libera di svincolarsi al primo momento utile; al
PD, che non aspetta altro che tempo e ancora tempo per evitare di risolvere i
suoi problemi interni e che in nessun modo oggi sarebbe stato in grado di
presentarsi decentemente ad una nuova campagna elettorale. Con quale
segretario? Con quale candidato? Con quale programma? PD che d’altra parte non
si rende conto della morsa in cui si sta stringendo, della sua impossibilità di
azione. Oggi Zanda parlava del governo
Letta come garante dello stato sociale, a proposito di alienazione dalla realtà…</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E il Paese dove va? Il Paese di cosa ha bisogno? A sentire Letta sembra
che tutti abbiamo bisogno di lui, cioè della sua presenza, della sua calma
serafica. Io non ne sono affatto convinta. Ma anche questo, in fondo, è poco
interessante.<o:p></o:p></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
Il fatto interessante è
che galleggiamo in uno stato di costante carenza democratica. Il rifuggire le
elezioni come se fossero il male radicale è una carenza democratica. Il fatto
che i telegiornali non parlino che di mercati finanziari ogni volta in cui c’è
una minima instabilità politica è una carenza democratica. Il fatto che Letta
sarebbe stato disposto a governare pure se avesse ottenuto la fiducia solo da
una parte di transfughi del PDL è una carenza democratica. E questo è pure un ritorno indietro, alla
Prima repubblica infinita in cui siamo ancora, che oggi si svela dietro il
volto buono dell’uomo con gli occhiali e l’espressione gentile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Ilaria</div>
</div>
IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-25664100376392346392013-09-30T18:30:00.000+02:002013-10-01T12:53:29.055+02:00La festa di SEL, il sogno su D'Alema e un lunedì di pioggia<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Aprire gli occhi la
mattina e sentirsi leggeri e pronti alla giornata non è così ovvio quando Bologna ti
accoglie con uno di quei suoi cieli pesanti, grigi, inamovibili. Io oggi mi
sono svegliata così, nonostante la pioggia leggera e perseverante che rende
inutili i cappucci, gli ombrelli, e ti s’attacca addosso come una seconda
pelle. Mi sono svegliata così, dicevo, dopo aver sognato D’Alema in persona
tutto preso a spillare delle birre. D’Alema in persona che mi <i>cazziava</i> perché in una birra spillata da
me c’era troppa schiuma, e la sottoscritta in persona che gli rispondeva,
sorridente ma a tono, “ prenderei anche sul serio questo rimprovero se tu non
fossi D’Alema!”. Non so, magari prendersela con D’Alema in sogno e ricordarselo
al risveglio è uno di quei fattori che rendono sopportabili la sveglia, la
pioggia e tutto il loro corollario di mestizia!<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Così me ne sono andata da
Maurizio, che è bar e barista, che in nessun modo riesce ad astenersi dall’immancabile
consiglio sul cornetto “la pasta salata alla nutella è ottima eh… bada…”e ti
mette jazz a prima mattina, ti accoglie nel suo mondo di legno vecchio e di
giornali nuovi. Oggi mi tocca il Corriere, che apro al mio tavolino sotto il
portico aspettando l’ottimo the al limone che in fondo è un normalissimo the
grigio con del normalissimo limone un po’ a pezzi, un po’ spremuto: la
specialità della casa. E insomma capita che mentre inizio a leggere l’istituzionalissimo
e solitamente moderatissimo, ennesimo editoriale di De Bortoli, avventori al mio
fianco dibattono di politica…<br />
<br />
“Ah beh ma l’avete sentito Letta da Fazio?”<br />
“E no, io non sapevo ci fosse già Che tempo che fa!”<br />
“Ma perché, tu lo guardi? Con quelle domande lì… ma che significa chiedere <i>Lei che ne pensa dell’epiteto diversamente
berlusconiano</i> ?? Ma che domanda è!”<br />
“Hai ragione sai… Ma insomma il governo è caduto”<br />
“No ancora no”<br />
“Ma te dici che cade?”<br />
“Mercoledì vanno a chiedere la fiducia là…”<br />
“Mmm… Ma che poi se cade, cioè non si può fare un’altra cosa tecnica, tu dici
che Monti non sarebbe di nuovo disponibile?”<br />
“Ma va… Che poi che se ne vadan tutti, non mi importa.”<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">E così finì, con l’ultimo
commento lapidario, con l’ultima sentenza. Mi alzo dal tavolo e me ne vado,
pensando all’indignazione che mi avrebbe colta se avessi ascoltato quella
conversazione quando ero un’arzilla diciottenne matricola di scienze politiche,
convinta che di politica potessero parlare solo gli addetti ai lavori, e a quanto oggi quel breve dibattito mi
incuriosisca. Mi domando chi siano quelle persone, cosa facciano nella vita,
che cosa aveva in mente la ragazza che auspicava un impensabile ritorno di
Monti, e chi è l’altro, il disilluso? Chi hanno votato, cosa vogliono? Cosa
domandano le persone? E proprio non so se sia stata l’Economia a rendermi più
umile o se la placida benevolenza che accompagna i miei passi sia dovuta alla
soddisfazione effimera per la risposta a tono al mio D’Alema immaginario.
Arrivo a lezione e il tema del giorno è all’incirca riassumibile ne <i>i poteri taumaturgici delle matrici varianze
covarianze</i> e mi rendo conto che l’econometria è bella, nonostante l’arida
facciata di algebra lineare, nonostante i terribili software, nonostante pure una
certa maniacalità teorica. <br />
<br />
Insomma sono a lezione, in una giornata oggettivamente brutta, dopo aver
ascoltato sconosciuti parlare di politica in un modo oggettivamente un po’ insensato.
Fa pure freddo. E nulla mi tange. Dietro questo buonumore ci sarà l’ombra di D’Alema.<br />
O forse è merito di Rob Brezney, autore dell’unico oroscopo al mondo che le
persone non si vergognano di consultare. Sarà merito, dico, dei suoi mitici
consigli della settimana scorsa, dei suoi compiti per tutti, dei suoi moniti
saggi a tratti incomprensibili, sempre un filo catastrofisti ma che poi in fine
prendi, se li prendi, un po’ come ti pare. E io stavolta – già – ho messo in
pratica l’oroscopo.<br />
<br />
E così in fondo è pure merito mio questo particolare buonumore, merito dell’autobus
19 preso dall’altra parte della città, merito di Viale Togliatti, merito della
Festa di SEL, dove la musica è un’altra davvero. Sarà merito di un giorno e
mezzo di sana e temprante <i>manovalanza</i>,
della generosità che scopri in persone sconosciute fino ad un attimo prima, che
ti aprono le porte con una naturalezza che in questo presente di corse e di
spintoni sembra irreale. Persone che sono singoli e sono comunità e che a
vederle così, con la curiosità del tuo sguardo esterno, ti sembrano venute da un
posto lontano in cui la solidarietà, la collettività, l’unione di intenti, non
sono parole vuote né vecchie ma vivono nelle braccia che sollevano sedie e
tagliano cipolle, nei sorrisi che si allargano sulle facce stanche del fine
serata, nel lavoro costante che sta dietro la festa e la sua leggerezza, nell’impegno
quotidiano. Pochi gesti valgono la stima, valgono pure un ringraziamento per un’esperienza
a sé, che in un attimo mi ha spalancato la mente e mi ha regalato un pensiero
bello da aggiungere agli altri, quelli che fanno bene nei lunedì di pioggia.</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Ilaria</span></div>
IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-36912764897722193592013-05-26T15:42:00.001+02:002013-05-27T11:06:16.911+02:00Silenzio Elettorale<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">“<i>Questa è una città di
persone miracolate e persone miracolose, e i più miracolosi sono gli amici del
santo col tricolore, quelli unti dalla sua benedizione</i>.”</span><br />
</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<span style="color: #741b47;">
dal racconto “I Pregati” in <i>Rumore di
Cicale</i> </span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: right;">
<span style="color: #741b47;">di Emanuele Gaetano Forte (2013, edizioni Il Foglio)<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"></span><br />
<span style="color: #741b47;">Mentre mi metto a
scrivere Emanuele presenta il suo libro di racconti a Latina, Claudio sta
prendendo il regionale Roma – Villa Literno,
che non è un treno, è un’esperienza di vita; mia madre spalanca forse le
finestre del salotto, Audrey come una sfinge fa da guardia al giardino in cui
Fabrizio come sempre è all’opera e mio padre, più in là, chissà se ha messo su
un pranzetto di vongole e cocci all’acqua pazza. A Formia ci sono le elezioni comunali.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/NKUCIzO6xqc?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe><span style="color: #741b47;">Insomma, è uno di quei
momenti in cui la sensazione di stare nel posto sbagliato assurge al rango di
certezza e consola questa nostalgia provinciale solo il sole inaspettato di
Bologna, dove oggi votano per questioni di principio e di sinistra e dove pure
la mia presenza serve a poco. Ma tant’è, faccio il mio dovere come sempre,
sigaretta o penna nella mia destra, i
tetti rossi dei palazzi di fronte e fogli sterminati di matrici e improbabili
sistemi di equazioni. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">E penso a casa, che è
vicinissima per post-modernità ferroviarie e lontana per mia scelta di
studente(ssa) stakanovista. Penso alla carta copiativa delle schede elettorali
e ai minuti che non passerò nella cabina, a guardare i simboli e poi scegliere
con la mia X netta, dritta; al caffè che non ho preso con mia madre, alle
chiacchiere, a cui non assisterò, di mio padre con avventori da seggio e
rappresentanti di lista, di quelli che fanno della Pedemontana tema degno dei
Massimi Sistemi. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Uno a leggere queste
righe forse riderà, ma chiunque sia nato in provincia e abbia quel poco
di sensibilità necessaria conosce a memoria la narrativa romantica del vivere
provinciale, di quell’esistenza a parte fatta di vicoli e santi patroni, e capisce
bene l’attaccamento che ti lega a quelle città piccole e sconosciute, dove il
racconto della storia arriva anestetizzato e in cui la storia sembra che non la
si faccia mai, escluse guerre e unità nazionali. Ma se ci si discostasse da
quest’interpretazione mediatica della realtà, in cui la risonanza di un evento
ne determina l’importanza, si comprenderebbe meglio il valore della costruzione
storica e politica come attività quotidiana, come evoluzione individuale all’interno
di un processo collettivo. Per questo le elezioni comunali sono importanti,
fondamentali, dico, ché il palazzo municipale è il primo contatto della gente
con lo Stato ed è il luogo dove tanto si annidano arrivismi e favori quanto invece, se la gestione della cosa pubblica è in mano a persone consapevoli del
loro ruolo, c’è davvero la possibilità di incidere sul modo di vivere della
gente, di imporre magari una cultura della cittadinanza consapevole, se non
attiva. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">A Formia di lavoro da
fare ce n’è tanto e i molti che si sono rimboccati le maniche in questo tempo
sbandato lo sanno certo meglio di me, che in fondo sono più avvezza alle valige
che alle case.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Formia è al limite di due
regioni, spiaccicata dalle montagne sul mare, contraddittoria per sua natura di
confine e per miste influenze culturali: l’accento di Napoli, l’orgoglio del
sud e quel tanto di campanilismo che fa venir voglia di sentirsi Nord, o almeno Centro . Formia è un misto di malavita arrivata come un
fiume carsico e di tostissime ottantenni scettiche sull’opportunità di fare la
raccolta differenziata, di ragazzini in motorino e longevi opinionisti a fare
da guardia ai <i>tubi </i>di fronte Piazza
Vittoria e alla rotonda, al porto, al mare. E nonostante questo e nonostante la
noia della provincia quante persone laggiù non hanno rinunciato ad un’intransigente
resistenza culturale? Tra Enza e le sue rassegne letterarie e il piccolo mondo
moderno dei teatri figli dei fieri anni settanta della
provincia; tra jazz e artisti, fotografi e poeti e imprenditori locali; per mano e per voce
dei ragazzi che non se ne sono andati, che lì fanno i banchetti la domenica,
che lì fanno politica tutti i giorni, Formia è un posto che pullula di storia e
di possibilità, tanto che in certi momenti romantici mi piace pensare che sia per uno qualche
disegno di progresso che là è stato incarcerato Gramsci e che ancora lì hanno vissuto
Pietro Nenni e Vittorio Foa. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Le elezioni di oggi in
quella conca di burberi e di fatalisti possono voler dire tanto, in termini di
un cambio di passo culturale che permetta a quella città di uscire dal pantano
della gestione sciatta e autoreferenziale subita negli ultimi tempi. E mi
sembra positivo che ci siano tante liste e tanti candidati, pacchi di
giovani intelligenti sparsi letteralmente a destra e a manca – ma più a manca...
Mi pare il segnale che le persone abbiano ritrovato la voglia di prendere parte
ad un processo di ricostruzione dell’amministrazione e perciò spero che queste
facce pulite, a volte incazzate ma ben intenzionate, abbiano la meglio sui
carnet di voti di tanti soliti noti. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Così mi dispiace non essere Giù, non essere a casa
per una volta e questa malinconia elettorale ha un po’ a che fare col senso
civico e molto con le cronache sentimentali, ovvero con la consapevolezza
profonda che le distanze e la ricerca della mia strada e della mia libertà, non cancellano le origini, il sentimento di essere figlia di una
terra che non è meno mia perché non la abito più e i cui destini per questo mi
riguardano fortemente, come sempre.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;">Ilaria</span></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #741b47;"><o:p>p.s. pubblicità progresso per chi fosse interessato al libro, che è bellissimo, che ho citato sopra. </o:p><a href="http://www.ibs.it/code/9788876064128/forte-emanuele-g-/rumore-cicale.html">http://www.ibs.it/code/9788876064128/forte-emanuele-g-/rumore-cicale.html</a></span></div>
IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-51023931772947931872013-04-30T00:03:00.000+02:002013-04-30T00:03:12.311+02:00.Dieci anni in poche frasiIlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-2430295043972785252013-04-24T00:17:00.002+02:002013-04-24T14:48:43.664+02:00Ventate di marxismo e ottimismo liberale E' stata una giornata lunga. Diciamo pure che io ho deciso di allungarla ulteriormente andando ad assistere a un incontro con Fausto Bertinotti nell'aula più sindacalista della Facoltà d'Economia più neoclassica d'Italia. Una contraddizione in termini.<br />
<br />
L'incontro, che doveva accendere un dibattito sui destini della sinistra dall'Università di Bologna all'Italia intera si è presto rivelato una lezione, a tratti un comizio. Il compagno Fausto, dal canto suo, è uomo di cultura e d'esperienza e sa farsi ascoltare. In pochi minuti, a seguito di una mesta domanda posta dal giovane mediatore al solo fine di spingerlo a parlare della situazione attuale, si è tolto gli occhiali troppe volte, se li è messi in mano, in testa, sulle sopracciglia in un equilibrio al limite estremo tra fisica e metafisica, poi li ha sbattuti sul tavolo, nemmeno fossero di gomma. E intanto ha sciorinato i più grandi nomi del pensiero politico del Novecento, colpendomi in pieno sul sentimento e mettendo a dura prova la mia parte razionale e critica.<br />
<br />
E' difficile stare vigili di fronte a una retorica così ricca di cultura e intransigenza. Ci si sente conservatori nell'anima, reazionari vili e statici democristiani, in un miscuglio letale di autocommiserazione. Si è talmente presi dal discorso da perderne il senso a tratti senza mai distrarsi dall'ampiezza del respiro che lo muove e quel fascino subìto fa un po' perdere di lucidità. Poi sono tornata in me. E mi sono resa conto che tra tutti i temi che "Fausto" ha trattato ne mancava uno che per me è centrale, di cui dirò tra poco.<br />
<br />
Benché il Nostro abbia attraversato di buona lena lo scibile politico tutto, dal nuovo movimentismo alla critica verso la classe politica, dal rovesciamento del conflitto di classe alla storia del PCI, dalle Costituzioni liberali a quelle democratiche passando per l'involuzione liberista della politica economica negli ultimi vent'anni, la sua argomentazione si è arenata su un punto, direi Il punto e cioè: Che fare?<br />
<br />
E' la domanda più ricorrente e meno banale, quella che costringe pure i più grandi amanti dei voli pindarici a tornare coi piedi per terra e capire che bisogna pur dare sostanza alle proprie gloriose aspirazioni di giustizia e di progresso. La pecca del discorso di Bertinotti stava nell'aver evitato di delineare la parabola politica dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, inserendola nel contesto della costruzione europea.<br />
<br />
Il suo discorso, che muoveva da un'analisi dell'evoluzione della "Costituzione materiale" rispetto a quella "formale", con particolare riferimento ai temi del lavoro e della legittimazione del potere politico, si limitava ad una specie di comparazione tra il momento dell'approvazione della Costituzione del 1948 e la situazione politica attuale. Messa in questi termini e con il giudizio mediato non dalla storia ma dalla cronaca, è ovvio che ogni lettura diventa in breve tempo una critica morale, un confronto di valore tra la classe dirigente di allora e quella di oggi. Tale confronto è certo necessario, se non altro per rendersi conto dei picchi e degli abissi che possono raggiungere la ragione e la dignità umana; ma porre il problema in termini etici elimina la Storia dall'analisi e dunque, di fatto, impedisce di capire quali motivi (e dunque le responsabilità di chi) ci hanno portati dove siamo oggi. <br />
<br />
Ora, Bertinotti si è fermato molto a dibattere del ruolo svolto dall' Unione Europea nell'acuire crisi già profonde in certi Paesi (Grecia e Italia in primis) e, in particolare, dell'assurdo di una sovranità monetaria che sovrasta la sovranità popolare. Parole vere e bellissime, ma che non spiegano come l'Unione Europea sia diventata ciò che è oggi. Il ruolo svolto dai suoi organi (e non solo) dal momento in cui si è iniziato a parlare di crisi del debito sovrano non è solo dettato dalla contingenza, ma soprattutto frutto di scelte politiche passate fatte dai governi dei paesi membri; in gran parte si è trattato di errori di miopia e sottovalutazione di ciò che l'unità economica avrebbe comportato e dell'importanza di un' unità politica che la controbilanciasse. Il Bertinotti che accusa l'UE di essere un cumulo di trattati è come se perdesse di vista che quei trattati li hanno siglati dei governi, ovvero degli Stati, ovvero degli uomini politici. In un certo senso, nel costruire l'Europa unita la politica ha abdicato al suo ruolo: nel tentativo di garantirsi una sovranità nazionale fittizia, ha finito per essere irrilevante sul piano che, nel mondo dei grandi potentati globali, determina gli altri, cioè quello mondiale. Il fallimento degli stati si trascina dietro il fallimento della politica nel senso che rispondere a mutamenti economici transnazionali con provvedimenti nazionali è o difficile o impossibile. Ma di spostare la sovranità ad uno Stato più alto non se n'è parlato ed oggi solo torna di moda il sogno dell'Europa federale, ma nemmeno troppo.<br />
<br />
Insomma, mentre "Fausto" parlava della Troika e dei mercati e del cinismo della finanza io mi sono chiesta tra quanto tempo una sinistra incerta e pure nostalgica di certi internazionalismi d'antan, riprenderà un discorso internazionalista sul serio. Quando, cioè, capirà che per difendere il lavoro in Italia non bastano misure microscopiche elaborate ad hoc per rispondere a certe esigenze ma serve un discorso più ampio che includa la difesa del lavoro anche altrove, che arrivi almeno all'Europa attraverso un dialogo serrato con le sinistre degli altri Paesi e che allora, in modo unitario, potrà incidere davvero sulle decisioni politiche. Per fare questo bisognerà rinunciare al sempre ripudiato e mai sopito nazionalismo.<br />
<br />
Bertinotti diceva che lo Stato Sociale figlio delle costituzioni del dopoguerra era un compromesso tra capitale e classi lavoratrici. Oggi quel dialogo non esiste, sostituito com'è da una costrizione che si esercita attraverso imposizioni apparentemente tecniche e invece orientate politicamente in difesa dei grandi interessi economici. Posso condividere e aggiungerei, però, che ciò è dovuto al fatto che ai livelli a cui il "capitale", per usare il suo lessico, opera, questo non ha interlocutori né oppositori e dunque monopolizza il potere. Se le forze progressiste si uniranno, però, e spingeranno nel senso di un'Europa largamente democratica e federale, credo che allora i rapporti di potere potranno essere diversi e l'opera dei governi potrà smettere di essere "octroyée", la democrazia potrà smettere di essere liberamente interpretata in senso più o meno paternalista e la difesa degli interessi dei cittadini, soprattutto dei lavoratori, potrà ricominciare ad avere un senso e un seguito in termini di azioni pratiche.<br />
<br />
E' sempre emozionante inneggiare alla pacifica fusione di tutti i movimenti di protesta, invocare i barbari di cui Marcuse parlava nel Sessantotto, spingere a una ricostruzione della politica come vita quotidiana, come impegno di tutti i giorni e come scelta. Ma accanto a questo deve innescarsi, credo, un discorso più ampio che abbracci l'orizzonte nel quale ci muoviamo, questo vecchio continente di nuovo azzoppato, ovvero l'Europa.<br />
In alternativa possiamo lamentarci del decisionismo illegittimo della BCE e sentirci molto puri.<br />
<br />
IlariaIlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-16608723614241019632013-04-20T15:49:00.003+02:002013-04-20T16:01:23.182+02:00Comiche all'italiana o della tragicità della politica<br />
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">L’elezione del Capo dello
Stato è il momento più alto e solenne della vita repubblicana, ed in
questi giorni si è trasformato nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, o del
grottesco .<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Sono tornati alla ribalta
i fantasmi più grigi della peggiore Seconda Repubblica e i metodi più loschi
della Prima, i più invertebrati arrampicatori sociali e i più andreottiani dei
redivivi democristiani, establishment
reazionario, cinici d’alemiani ed
ipocriti separatisti, nani e ballerine; tutti uniti dall’istinto di
autoconservazione di una classe politica di inetti, di ignoranti, nascosto
sotto il sostantivo più altisonante e sbeffeggiato: la Responsabilità.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Non sanno loro, questi uomini
piccoli, che la Responsabilità è quella di Tocqueville, di Kant, di Panagulis: la responsabilità di rispondere ai propri
doveri, dettati sempre da una morale disinteressata, universale e autonoma; la
responsabilità di fornire giustificazioni al proprio agire libero,
indipendente, intellegibile; la responsabilità di prendere posizione, delle
scelte di cui si porta il peso, come una croce, a testa alta. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Li guardo sfilare uno dopo l’altro e li
ascolto esprimersi nel loro modo banale, con frasi piatte, insensate, piene di
metafore quanto prive di subordinate, come se le immagini che evocano
servissero a riempire il vuoto miserabile dei contenuti, a nascondere ancora
l’irrazionalità delle loro scelte. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Ha sbagliato Giorgio
Napolitano ad accettare di farsi rigettare nella mischia di una politica sorda
ai problemi della gente e sempre pronta a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità,
nel realismo apparente che è solo incapacità di decidere. Mi chiedo quale
sentimento o quale logica l’abbia mosso, al di là della convinzione, figlia di
una lettura di questa fase storica che non mi sento in alcun modo di
condividere, della necessità di un nuovo compromesso storico, l’incubo dell’esacerbarsi
di una crisi sociale che però proprio questa classe politica, la sua
mediocrità, le sue scelte scellerate stanno contribuendo a fomentare. Profezie che si autoavverano.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">La democrazia è altro dai
simposi di saggi rinchiusi a tessere le trame di un futuro migliore secondo la
loro apparente oggettività e sommessa ideologia; altro dai governi tecnici a
tempo indeterminato; altro, soprattutto dall’unanimità che nasconde il
compromesso, il baratto, la collusione. E’ il senso della democrazia come
chiarezza delle procedure – quella di un certo Bobbio - che in questi giorni
stiamo smarrendo mentre ci arrotiamo in dinamiche tragicamente decisioniste e
paternalistiche. Ed ecco l'apice della crisi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
</div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Ed è quando la politica
diventa autistica che un periodo di
crisi, che dunque per sua stessa natura
poteva essere di apertura, di rinnovamento, di progresso si trasforma
nell’ennesima fase di conservazione. Ma l’Italia fuori dal Palazzo, a pochi
metri dal grande Transatlantico di cui parlano con una certa vezzosa tenerezza
i giornalisti borghesi, è una pentola a pressione, dove pure i più fedeli
giovani democratici occupano le sezioni e forse si ricordano di Gramsci, di
Contessa, della retorica pomposa ma autentica delle anime belle, tanto
necessarie e tanto vilipese da certi Massimo D’Alema. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">L’Italia transennata
fuori da Piazza Montecitorio aspetta indolente e rabbiosa insieme, ed ha la
faccia pensionati, dei commercianti, degli operai, dei trentenni in eterna
attesa, della generazione dei miei ventenni perduti, che vanno a piangere tra le braccia di un comico,
cercando una risposta al loro sdegno nell’ennesimo imbonitore lasciato indisturbato
a prendersi cura della disperazione dei poveracci e dei disillusi che sono
sempre di più, che siamo tutti noi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="color: #4c1130;">Ilaria</span></div>
<br />IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-5910913554551839652012-11-23T20:01:00.004+01:002012-11-24T01:07:11.970+01:00Oppure… due righe sulle primarie<br />
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="color: #4c1130;">C’è molto poco che io mi senta davvero di condividere del modo in cui sono
state organizzate queste primarie del centrosinistra e nemmeno ne apprezzo particolarmente il valore. Mi è parso che troppo
fosse abbozzato, nelle regole e soprattutto nei contenuti, al punto che per
lungo tempo mi è sembrato si trattasse solo di una sorta di congresso popolare,
di una resa dei conti misera all’interno del PD. Figli yuppies, padri
che furon sessantottini e in mezzo una donna, Laura Puppato, tanto in gamba
quanto sola. </span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">
Nadia Urbinati ha ragione quando sostiene che le primarie sono lo
strumento per antonomasia in grado di svuotare la politica di senso, poiché la
riducono come nient’altro a una questione di comunicazione e di audience,
mettendo in secondo piano la parte attiva della partecipazione politica che è la
caratteristica principale di una cittadinanza autenticamente consapevole, oltre
che libera.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">Ma allora perché andare a votare, nonostante lo spaesamento, nonostante
anche la frustrazione? <br />
La mia sensazione è che il prezzo dell’astensionismo in quest'occasione
storica sarebbe troppo alto. <br />
"La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce
quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le
forze d' una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un
estremo pericolo", scriveva Giame Pintor. E questo è uno di quei momenti,
che forze politiche che si definiscano di sinistra e progressiste non possono
perdere l’occasione di cogliere. E in momenti così non si può non assumersi la
responsabilità di scegliere. Astenersi per sentirsi al di sopra delle parti,
per preservare la propria purezza, oggi non ha senso. E’ sporcandosi le mani
con la realtà che si dà la propria impronta alle cose e, anche, che si acquisisce
il diritto di criticarle. Le elezioni di marzo indicheranno la strada che
questo piccolo Paese percorrerà nei prossimi decenni e le scelte da prendere sono
tante. La sinistra ha davanti a sé la sfida di ridefinire non solo un programma
di politiche pubbliche, ma i contenuti stessi del suo sistema di pensiero di
riferimento. <br />
Si tratta, cioè, di ridare senso ai temi, peso alle parole che hanno
caratterizzato la sinistra fino agli anni ottanta e che sono state, poi,
progressivamente abbandonate sulla scia di una globalizzazione che nel mondo
cosiddetto sviluppato sembrava promettere infinito progresso e ricchezza e, in
fine, rinnegate quando il crollo del blocco sovietico ha rivelato a un mondo
già consapevole ma cieco i drammi del socialismo reale. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">La storia dei nostri giorni, però, costringe tutti coloro che ancora hanno
gli occhi per vedere a porsi forti dubbi sul senso di uno sviluppo fondato sulla
cultura dell’individualismo, dell’egoismo, della corsa alla ricchezza. La crisi
ci obbliga a porci il problema delle pari opportunità (senza le quali, per
inciso, non ha neppure senso parlare di meritocrazia), delle disuguaglianze,
della giustizia sociale, se non per un personale istinto filantropico, almeno
perché bisognerebbe tener presente che l’aumento eccessivo delle disuguaglianze
sociali rischia di mettere in discussione lo stesso modello democratico. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">Scrivere “rischia” è già tardivo, perché non è più da pochi giorni che le
estreme destre, con la loro buona dose di nazionalismo e di razzismo hanno
ricominciato ad attirare consensi in Europa. E l’appiattimento delle sinistre
su posizioni sempre più centriste, lo scimmiottamento ventennale di teorie liberali
e liberiste ha avuto certamente un ruolo nel far sentire troppi cittadini
sempre più abbandonati e meno rappresentati. Ieri mia madre mi faceva notare,
ad esempio, che un contadino calabrese non capirebbe mai come iscriversi alle
primarie online, e che un partito che non si pone il problema di far votare un
contadino calabrese non è un partito di sinistra. Il suo pensiero non è
sbagliato né naif; anzi, coglieva il problema di fondo: l’abbandono di quelle
masse di cui pure si rinnega l’esistenza proprio da parte di chi dovrebbe
teoricamente rappresentarle. Se è vero che i connotati delle classi si
modificano costantemente è pure vero che le classi non hanno mai smesso di
esistere. La sinistra dovrebbe impegnarsi a conoscerla questa nuova società, al
di là di qualche azione di rappresentanza. Bisogna che si capisca chi sono i
nuovi soggetti che la formano, quali sono le loro necessità, quale la loro
dimensione esistenziale e in quale modo sia possibile rispondere ai loro
bisogni, al di là di qualche frase ad effetto e del sentimentalismo nostalgico
delle grandi occasioni. Quest’analisi non può prescindere dalla presa di
coscienza che i temi della subordinazione, dell’efficacia dei diritti per tutti, per
quanto abbiano assunto connotati nuovi e siano tristemente passati di moda,
devono tornare ad essere affrontati senza remore e senza paura. Altrimenti anche i temi dei doveri, delle responsabilità individuali, almeno altrettanto necessari, perdono completamente senso.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">In questi anni su questo piano il Partito Democratico ha fallito, bloccato
dallo sterile dibattito al suo interno che si risolve sempre in una specie di
sfida alla lottizzazione tra correnti per la monopolizzazione della linea
politica; ha fallito perché ha voluto fingere di essere nato senza storia, di
essere di tutti finendo per essere di nessuno; ha fallito perché non è stato in
grado di elaborare una linea chiara in nessuno dei grandi ambiti della politica
nazionale, dall’economia alla politica estera. Il Partito Democratico non solo
non ha un programma ma, peggio, sembra non avere un progetto. E in effetti è difficile
che si riesca ad avere una progettualità rivolta al futuro se non si è ancora
in grado di fare i conti con il proprio passato. Pier Luigi Bersani ha
sostenuto che in un ipotetico Pantheon politico metterebbe Giovanni XXIII.
Questo dà il senso dello smarrimento, e anche dell’assurdo del dibattito attuale.
È banale quanto lecito domandarsi quale lezione abbia colto dalla propria
storia un uomo che si è formato politicamente nel Partito Comunista che in quel
periodo fu di Ingrao, di Amendola, soprattutto di Berlinguer e per quale
ragione reputi necessario svincolarsi da quella storia con tanta superficiale
noncuranza.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">In Francia un Pantheon ce l’hanno sul serio e, in tutta la sua grandezza,
nella sua magnificenza neoclassica, conserva le spoglie dei suoi Voltaire,
Rousseau, Jaurès. Quel socialista, quell’umanista di Jaurès. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">Per queste sparse ragioni e anche per una mia opposizione, diciamo,
ontologica, all’esistenza stessa del Partito Democratico, su cui non mi
dilungherò, ho capito che sostenere uno dei suoi candidati sarebbe, per me, o impossibile (nel caso specifico di Renzi) o uno
sforzo troppo grande, almeno in questa prima fase. Non sempre, o quasi mai, il cambiamento si fa davvero dall’interno. <br />Non sempre, o quasi mai, si vota sulla scia di considerazioni di réal-politique.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT;"><span style="color: #4c1130;">Oppure, Nichi Vendola.<br />
Con molti dubbi, con il timore di un’altra delusione, <o:p></o:p></span></span></div>
<span style="font-family: "Calibri","sans-serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;"><span style="color: #4c1130;">Ilaria</span></span>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-76313505093910355262012-06-07T15:19:00.000+02:002012-06-07T15:19:56.637+02:00Tourbillon<div style="color: #4c1130;">
" "Perche' non mi mostri quella Parigi," disse, "di cui hai scritto?" Una cosa ricordo: che al rammentare di quelle parole all'improvviso io capii l'impossibilita' di rivelar mai la Parigi ch'ero riuscito a conoscere, la Parigi degli <i>arrondissements</i> indefiniti, una Parigi che non e' mai esistita se non in virtu' della mia solitudine, della mia fame di lei. Che immensa Parigi! Ci vorrebbe una vita per esplorarla di nuovo. Questa Parigi, di cui io solo avevo la chiave, non si presta a un giro, nemmeno con le migliori intenzioni; e' una Parigi che bisogna vivere, che bisogna provare giorno per giorno in mille diverse forme di tortura, una Parigi che ti cresce dentro come un cancro, e cresce e cresce finche' non ti ha divorato. "</div>
<div style="color: #4c1130;">
<br /></div>
<div style="color: #4c1130;">
Henry Miller</div>
<span style="color: #4c1130;">Tropico del Cancro</span>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-36515257993487953132012-05-07T21:05:00.001+02:002012-05-07T21:05:34.342+02:00Aux armes, citoyens...<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-RR72qLPJ0SE/T6gbYj0bG_I/AAAAAAAAABo/GWF4mk0R3_Q/s1600/KIF_4188.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="300" src="http://2.bp.blogspot.com/-RR72qLPJ0SE/T6gbYj0bG_I/AAAAAAAAABo/GWF4mk0R3_Q/s400/KIF_4188.JPG" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Ieri sera Place de la Bastille era un oceano di teste e di bandiere. L'entusiasmo non riassume i sentimenti che animavano quello spazio enorme, quelle persone vocianti, quel miscuglio incredibile e festoso di generazioni: vecchi e giovani uniti, prima di tutto, da un sano ed invidiabile fervore politico e repubblicano. François Hollande, come è noto, è il nuovo Presidente di questa Francia che ha tanti motivi per essere orgogliosa di sé. E in quella piazza si respirava l'aria della storia. La Quinta Repubblica non è più così giovane, dal 1958 sono passati cinquantadue anni e le presidenze di destra sono state interrotte solo dal periodo Mitterand, iniziato nell'81 e finito nel '96. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Il bisogno del cambiamento in una repubblica matura significa bisogno di alternanza, e deriva da quella coscienza politica che evita la formazione di incrostati, corrotti sistemi di potere. E la coscienza politica dei cittadini va di pari passo con la serietà delle sue istituzioni, con la credibilità dei partiti e della classe politica. Sotto questi punti di vista la Francia non ha niente da rimproverarsi. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Quando sono arrivata a settembre tutto doveva ancora iniziare, le primarie socialiste per la scelta del candidato presidente non c'erano ancora state ed un semestre sarebbe passato prima che Sarkozy ufficializzasse la sua ricandidatura all'Eliseo, Marine Le Pen era cosa nota, ignoravo l'esistenza di Jean Luc Mélenchon. Seguivo i dibattiti politici sui quotidiani e su internet e mi sembrava che la politica francese fosse noiosa e morta, priva di passioni e ripiegata su poche questioni marginali. Una politica burocratica, degli amministratori grigi sfornati dalle Grandes Ecoles. </span></div>
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-LAHaLjn-Pmw/T6gcFGvCREI/AAAAAAAAABw/R-LnUIl_7fQ/s1600/KIF_4193.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em; text-align: justify;"><span style="color: #4c1130;"><img border="0" height="240" src="http://4.bp.blogspot.com/-LAHaLjn-Pmw/T6gcFGvCREI/AAAAAAAAABw/R-LnUIl_7fQ/s320/KIF_4193.JPG" width="320" /></span></a><br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Mi sbagliavo, e l'ho capito col tempo, per superficialità campanilistica e per la distorsione causata dall'aver vissuto in un periodo storico mediocre, vergognoso, la politica italiana, da sempre immagine di un eccezionalismo eterno, di una sorta di perenne stato di urgenza e di necessità; una politica aggressiva, movimentata, instabile. Tutto questo per me era sinonimo di interesse e mi illudevo che l'eterno caos della nostra penisola potesse essere prima o poi foriero di una qualche forma di seria di evoluzione e di cambiamento. Mi ostinavo, non avendo sperimentato altro, a non voler vedere il Gattopardo dietro repubbliche che da noi cambiano il nome ma non la forma, non la sostanza dei loro giochi di potere.</span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">In questi mesi di campagna elettorale la politica francese mi ha davvero sconvolta. La sua bellezza sta nella sua onestà, nella chiarezza degli schieramenti politici, nelle Sinistre e nelle Destre capaci di riconoscersi in valori distinguibili; la sua grandezza sta nel rispetto che sottende il dibattito così che questo mai si trasforma in rissa sterile, animalesca, anche nelle prese di posizione più dure, anche nei discorsi più appassionati, nelle manifestazioni più indignate. La Repubblica, qui, è in grado di preservare se stessa dalle degenerazioni più estreme, dai pericoli derivanti soprattutto dai successi di un certo massimalismo di destra, incarnato dal Front National. I cittadini sono persone pensanti, critiche e rispettose, perfettamente in grado di distinguere i discorsi politici dal luogo comune. Dovrebbe far discutere il fatto che il partito di Le Pen abbia ottenuto i risultati più bassi nelle città più grandi e a maggiore densità di immigrazione. Ma il discorso, ora, non è questo.</span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Ieri si festeggiava la vittoria di una sinistra laica, sociale ed europeista. E' stata la vittoria della normalità un pò pedante di Hollande, dei suoi continui richiami al bisogno di ritrovare un'unità e di condivisione, di coesione sociale e di rispetto della diversità, ma è stata anche una vittoria del Front de Gauche, una sinistra più radicale, critica, ma con la fortuna di aver individuato un leader come Mélenchon, capace di una coerenza e lungimiranza tali da non poter che suscitare un immediato rispetto. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">La colonna della Bastiglia, ripresa già il Primo Maggio come secoli fa era stata conquistata la vecchia prigione della dissidenza all'Ancient Régime, ieri era invasa ed il simbolismo del gesto era emozionante. Devo aver provato una certa invidia a non poter partecipare del tutto della festa. E ogni sguardo a ciascuna di quelle migliaia di facce fiere, consapevoli, unite, causava in me come un magone per non aver mai potuto festeggiare niente, per non essere mai stata soddisfatta, orgogliosa del mio Stato, fiduciosa nei confronti della mia classe dirigente. Un'Italia persa immaginavo a sud, dove non è possibile riconoscersi in un progetto politico, ma dove anche sbiadisce e si corrode, per disillusione precoce, qualsiasi trasporto civile ed emotivo che forse è anche "un sogno, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita". </span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">E mentre io mi interrogavo su questo e l'altro mondo, mentre un signore mi regalava una bandiera del Front de Gauche che io cercavo di rifiutare ma che alla fine, felice, ho accettato, dall'altra parte della Senna, alla Mutualité, non c'era niente da festeggiare e Nicolas Sarkozy teneva il discorso della disfatta. L'ho ascoltato oggi, trovandolo di un'alta statura politica e di grande dignità. Sarkozy ha indossato il vestito migliore e a testa alta ha saputo assumersi l'intera responsabilità di una sconfitta che non è stata un disastro, riconoscendo ad Hollande i suoi meriti, incitando a non perdere la fiducia nelle istituzioni, a continuare a credere nella Francia, nelle sue possibilità, a non cedere ad un controproducente odio di partito. E' stato un discorso patriottico e commovente sulla frase finale "vous etes la France éternelle", come commovente era stato il boato della Bastille al "nous ne sommes pas un Etat quelconque, nous sommes la France!" di Hollande. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">A Parigi vincenti e perdenti cantavano La Marseillaise. Mi domando quando troveremo il coraggio noi, laggiù, di prendere la nostra storia di petto, di chiarirla e di smentirne le revisioni, quando troveremo dei cardini in cui riconoscerci tutti, quando saremo anche noi uno Stato normale, quanti secoli ci vorranno per fare gli Italiani. Rifletto perché qui si capisce cosa sia una Nazione, si percepisce l'imponenza e la sacralità di uno Stato degno di dichiararsi tale e talmente orgoglioso da aver messo in piedi, per celebrarsi in eterno, l'unica chiesa laica del mondo, quel Pantheon dedicato "aux grands hommes la Patrie reconnaissante".</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"> E' per questa condivisione di valori di base, questa immortale religione repubblicana, che lo scontro mai si trasforma in guerra, che la democrazia non è indebolita né banalizzata da un pluralismo che pure esiste e non viene ucciso nemmeno da un sistema elettorale severo come il maggioritario a doppio turno. </span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Una metà dei francesi francesi può festeggiare il progresso, altri possono piangere la sconfitta. Ma questo, qui, non significa disperarsi; la delusione non diventa desolazione, quell'abbandonarsi al destino che noi italiani conosciamo bene, quando al di là degli uomini resta forte la fiducia nelle istituzioni che rappresentano.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">La Repubblica, come una madre, veglia sulla storia; le sue parole le danno un fine, la riempiono di dignità. Chi non sarebbe fiero di un Paese così.</span></div>
<br />
<span style="color: #4c1130;"><br /></span><br />
<span style="color: #4c1130;">Ilaria</span><br />
<span style="color: #4c1130;"><br /></span><br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">p.s. ci sarebbero da commentare le reazioni allucinanti della classe politica italiana ad i primi risultati delle amministrative. Non ho tempo, quindi mi limiterò ad un riassunto che renda conto della mia incredulità e perplessità.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Il PDL, ad esempio, sta morendo, i suoi quadri dovrebbero dimettersi in massa; nessuno si assume la responsabilità di una disfatta evidente. Berlusconi, opportuno come sempre, è a Mosca a festeggiare l'ennesimo insediamento di Putin, non una parola di indignazione da parte di alcuno. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Il PD sopravvive per inerzia e per non aver mai governato, ma a Palermo è stato battuto due volte: la prima durante le primarie, la seconda adesso; non capisco che conclusioni ne abbia tratto. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Il centro non esiste, ed ancora non ho ascoltato un'autoanalisi.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Grillo avanza e si fa vivo in me un moto di repulsione. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Si sprecano analogie infondate con la Grecia e con la Francia, come se fosse possibile comparare elezioni amministrative ad altre politiche e presidenziali. In Italia il dibattito è tutto un dissuadere l'opinione pubblica dai temi che bruciano. E' tutto un sopravvivere di una classe dirigente inadatta, culturalmente fragile, politicamente insignificante, moralmente ai limiti del raccapricciante.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<br />IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-82441795492204407652012-04-24T13:24:00.001+02:002012-04-24T13:24:21.888+02:00Mélenchon, la Présidentielle, Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità e chi più ne ha...<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Poco tempo fa mi è capitato un incontro
interessante. Stavo seduta con Giulia sulle scale di Montmartre, come capita
spesso nelle serate che iniziano al Rendez-vous des Amis e finiscono con lunghe
chiacchierate, discorsi fiume, invettive varie e sfoghi più o meno seri sul
corso della politica mondiale…<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm;">
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/zmkk984K1Kc?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe><span style="color: #4c1130;"></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Dei poliziotti in borghese sono passati in
macchina sul belvedere che si affaccia su Parigi, hanno fermato un ragazzo che
andava contromano in motorino. Mi dico che questo poveraccio deve avere una
sfortuna mortale: non avevo mai visto lì nessuno contromano, tantomeno
contemporaneamente al passaggio di una volante. Ma tutto sommato è giusto che
lo fermino, le infrazioni sono infrazioni. Solo che i poliziotti ci prendono
gusto, tengono lì il ragazzo per una abbondante ventina di minuti. Lui se ne
sta fermo, inquieto e a suo modo dignitoso, mentre gli altri aprono la sella,
controllano i documenti, rovistano fra le sue cose, lo perquisiscono, lo accerchiano,
gli fanno domande. E’ chiaro che oltre ad essere passato contromano non ha
fatto niente. Però i poliziotti lo provocano e lui a un certo punto reagisce,
alza la voce, gesticola. Parla un francese strano che indica che, lui, francese
non è. Io gli vorrei legare le mani e tappare la bocca, dico, lasciali fare il
loro lavoro, resisti un po’ in silenzio. Iniziano spintoni e qualche sberleffo,
il ragazzo finisce faccia alla volante e schiena ai poliziotti. Il capo di
turno sta lì, guarda, ogni tanto fa cenni e se ne rimane impettito nella sua
porzione di potere. La serata sta passando anche oggi e c’è qualcosa da fare.
Chissà cosa si prova a decidere della gente.</span></div>
<span style="color: #4c1130;"><o:p></o:p></span><br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Intanto a noi si è avvicinato un ragazzo. Ci
chiede un accendino e di dirgli cosa succede. Gli spiego la situazione, gli
dico che secondo me stanno un po’ esagerando ma che tanto va così. Lui si
siede, dice che è vero, che va così. Ha la faccia stanca e magra, di persona
invecchiata presto nonostante i suoi ventitre anni. E gli occhi spalancati,
vivaci e spaesati, in cerca di un senso a cui aggrapparsi, tradiscono il sorriso accennato della bocca,
malinconico e triste, come la postura un po’curva, tipica dell’incertezza e
della timidezza. Ci chiede che cosa facciamo, glielo spieghiamo in breve, lui
si complimenta, poi si lancia in un lungo discorso sulla sua vita, sulla voglia
di andarsene, sull’impossibilità di vivere a Parigi, sull’assurdità di spostarsi
nei quartieri ricchi per lavorare e tornarsene ogni sera dall’altra parte dalla
città: dal sud ovest al nord est, nel
monolocale che costa uno stipendio, nonostante si trovi nella zona popolare
degli ex quartieri operai e industriali. Dice che in Francia non c’è niente da
fare, che lui sente sfuggirsi il futuro, ed emerge tra le righe la frustrazione
per la segregazione che qui si vede e si vive, per la divisione tra quartieri
separati come scompartimenti: guardare la rive gauche da lontano e saperla
inarrivabile, inaccessibile come tutte le prime classi. Ci dice di approfittare
di Parigi, di restarci e di farci dei soldi, perché qui i soldi ci sono, per
poi spenderli “a casa vostra”, dove la vita costa di meno, dove le differenze
sociali non sono ancora così marcate. Ha dell’Italia un’idea romanzata, glielo
spiego senza approfondire. E poi se ne va. Gli domando se andrà a votare, lui
risponde di no, che tanto non cambia niente, che tanto è tutto inutile e sono
tutti uguali. Gli rispondo che non è vero e che se vuole che le cose cambino
deve anche prendersi la responsabilità di fare un gesto, di esprimersi, che è già
un modo per avere del potere
decisionale. Gli dico di guardarsi un po’ intorno, di vedere i candidati, di
sentire cosa dicono e di provare a scegliere, perché è importante, scegliere,
per non restare senza voce, per non lasciare che siano altri a farlo per noi.
Ci pensa un attimo e mi dà ragione, ma chissà se ha votato davvero e poi per
chi. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">In questi giorni è tutta un’analisi del voto, un
avvicendarsi di commenti su chi ha vinto e chi ha perso e come e perché. Io
ripenso a quella faccia senza conforto e senza nome, senza riferimenti né
fiducia nel mondo. Quella faccia che una
rappresentanza se la merita, quella faccia marginalizzata ed esclusa che
nessuno si gira a guardare. E ripercorro con la mente i commenti sulla campagna
elettorale ormai passata del primo turno, gli slogan sorpassati, le opinioni
sui candidati.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"> Su
Mélenchon, in particolare, si è discusso,
si è fatta molta ironia. Si è parlato di populismo e di retorica; lo si
è fatto passare spesso per una specie di pazzo fuori dalla storia; Hollande lo
ha sottovalutato e un po’ deriso, il sarcasmo sul “<i>phénomen de campagne</i>” si sprecava. A Sciences Po, dove tutti la
sanno lunga su tutto, Mélenchon si commentava come un animale strano. In almeno
due corsi mi sono sentita dire: “ecco, contrariamente a quello che dice nel suo
programma Mélenchon… “ Praticamente un estremista, ma anche un falsificatore
della realtà. Ed è vero che i suoi discorsi sono sempre carichi di retorica, è
vero che la sua critica è stata radicale, estrema. E’ vero pure che parte del suo programma è
irrealizzabile. Ma Mélenchon ha il grande merito di aver incentrato la campagna
elettorale sui valori della Repubblica, tutti e tre, a partire da quell’Egalité
messa da parte fino a rinnegarla, fino a dare per scontato che sia normale che
esistano sempre più facce, come quelle del ragazzo di Montmartre, che nessuno
si gira a guardare. E soprattutto ha avuto il merito di mettere in piedi una
critica forte, decisa, senza tentennamenti, ai valori incarnati da Le Pen.
Laddove lei ha spinto al terrore di fronte alla diversità, alla caccia allo
straniero, alla colpevolizzazione aprioristica dell’ “immigrato”, lui ha
ricordato l’importanza del meticciato, ha proposto il diritto di cittadinanza
per i nati sul suolo di Francia e ha indicato la necessità dell’integrazione
come antidoto alle divisioni che creano rancori e violenze; laddove lei si è
rinchiusa nelle mura della Francia, in un egoismo tipico dei nazionalismi, lui ha
parlato per la gente della Grecia, dell’Italia, della Spagna, del Portogallo,
in nome di una <i>révolution civique et
citoyenne</i>.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Jean-Luc Mélenchon è stato attaccato soprattutto per le sue
prese di posizione di fronte alla globalizzazione ed ai suoi effetti, ed ha
spaventato per il rigido egualitarismo delle
sue convinzioni economiche e quindi delle sue proposte. Ed il timore che
suscita è comprensibile, la storia ci insegna il pericolo delle degenerazioni
agli estremi. Il limite economico di
Mélenchon è quello con cui si scontrano tutti i tentativi di mettere l’economia
al servizio delle persone, è la manifestazione del dramma eterno di pensare il
socialismo laddove il liberismo pare abbia vinto. E lui dovrebbe limare i suoi
eccessi e ragionare realisticamente sul bisogno di conciliare libertà ed
uguaglianza, su come, nella pratica della vita vera, mettere insieme la
possibilità della realizzazione personale e il bisogno di garantire uno
standard di vita accettabile per chi non ce l’ha fatta, o non ce l’ha potuta
fare. E’ l’autoanalisi che dovrebbero mettere in atto tutte le sinistre
europee. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Eppure mi domando come possa un discorso più
incentrato sulla lotta allo strapotere dei mercati che sull’odio di classe,
spaventare più di parole che nascondono, ma nemmeno troppo, il nazionalismo
dietro i valori della patria, l’odio per il diverso dietro l’inno alla
protezione del sangue della nazione. </span></div>
<span style="color: #4c1130;"><div style="text-align: justify;">
Il Front National di cui si canta la vittoria e che solo oggi fa paura sul
serio, come è facile fare allarmismo una volta che i risultati del voto sono
noti, è stato sottovalutato per anni, e mai attaccato direttamente nemmeno in
questa campagna elettorale. Anzi, a destra in qualche modo si è seguita la sua
scia, per cercare di attirarne l’elettorato. Non mi pare che qualcuno, al di là
di Mélenchon, abbia colto la possibilità, che partiti per definizione moderati
e di governo non hanno, di affrontare questa destra estrema di petto.</div>
<o:p></o:p></span><br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Ed è stato lui, molto più di Le Pen, ad essere oggetto
di critiche e di attacchi, sia chiaro, legittimi, in questa campagna.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Come è facile fare a pezzi le utopie, che per
definizione si astraggono dalla realtà, così sembra impossibile smontare discorsi
che si appoggiano sull’umanità degli istinti delle persone, così è difficile
contrapporre questioni di principio che, al cospetto del realismo estremizzato e
della retorica della vita vera, passano per parole vuote, incapaci di dare
risposte ad inquietudini e a timori che dei principi, nell’immediato, possono
pure fare a meno. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Si dice che
Marine Le Pen ha istituzionalizzato il suo partito, e in effetti lei è riuscita
a normalizzarne il discorso e la propaganda, a vendere la sua immagine
protettiva ed empatica laddove il padre mai era stato in grado di nascondere un
estremismo che anche oggi è presente, ma che è meno visibile perché nascosto
dietro una faccia di apparente buon senso. “Però tutto sommato non ha torto” è
l’atteggiamento tipico rispetto ai discorsi di Le Pen, una reazione istintiva
che nasce dai sentimenti immediati, quelli su cui lei basa il suo successo. Solo
fermandosi un attimo a ragionare si svela, dietro il suo volto di madre, dietro
la fierezza della donna che ce l’ha fatta, l’unione letale e pericolosissima di
esaltazione dell’individuo e superpotenza dello Stato, che fa venire in mente
senza che ci sia bisogno di una grande preparazione culturale, la retorica del
fascismo ancora in incubazione dell’inizio del Novecento. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Il Front National, a giochi fatti, ha preso il 18
percento dei voti. E’ un successo che non si può negare. Ma il fatto che in una
campagna elettorale il Front de Gauche sia passato dal 4 all’11, 7 deve
spingere ad andare avanti sulla strada che questo partito si è dato, che è
quella della lotta all’estremismo di destra prima ancora che al sistema così
come è fatto. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">La critica sterile e senza argomenti reali di Le
Pen ad un establishment fatto da tutti all’infuori di lei, non è paragonabile
allo stile di Mélenchon, che nell’idealismo del suo pensiero se ne sta con i
piedi piantati per terra e sprona alla battaglia quotidiana per la giustizia
sociale, riconoscendo però senza ricatti e senza remore la necessità che la
sinistra tutta, pur non condividendone l’intero programma, sostenga Hollande al secondo turno. Questa è una presa di posizione seria, che indica un certo distacco dal personalismo e dal populismo di cui pure è stato accusato. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Mélenchon non è un pazzo, è l’esponente di una
sinistra che si interroga tra limiti e difficoltà su come rispondere alla
crisi, senza appiattirsi su posizioni conclamate e maggioritarie e senza
voltare le spalle ai lavoratori. Non so se tra quell’11, 7 percento di francesi
qualcuno, in assenza della sua candidatura, avrebbe votato Le Pen. Qualunque
sia la risposta, niente può togliere a quest’uomo venuto da Tangeri il merito
di essersi contrapposto direttamente ad una destra lasciata per troppo tempo
indisturbata, svelandone le incoerenze e le mistificazioni, contrapponendo ai
sorrisi bonari e ingannevoli, una faccia scavata, segnata dalle rughe, percorsa
dalla vita.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Ilaria, molto meditabonda, molto perplessa, molto boh.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">p.s. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Leggo con tristezza e con rabbia che i fascisti a
Roma usano La Locomotiva di Francesco Guccini per i loro manifesti contro il 25
aprile.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Mi
piacerebbe capire se, a loro parere, ad i repubblichini di Salò (che senza
problemi ,né di coscienza né di interesse nazionale, hanno contribuito
direttamente a stermini e persecuzioni di massa che <u>non</u> sono solo
responsabilità dei nazisti), si adatti
anche questa frase, tratta dalla stessa canzone:<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="color: #4c1130;">“ma un’altra grande forza
spiegava allora le sue ali<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: center;">
<span style="color: #4c1130;">parole che dicevano gli
uomini son tutti uguali”<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="color: #4c1130;">Potreste farvi un’analisi di coscienza, se solo l’aveste. </span><o:p></o:p></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-45885419986457402242012-03-08T22:05:00.001+01:002012-03-08T22:06:45.993+01:00“...Sognano di navigare ma non è vero”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/oUVlOFR0UU4?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div><span style="color: #4c1130;"><br />
</span><br />
<span style="color: #4c1130;"><br />
</span><br />
<div class="MsoNormal"><span style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Un paio di settimane fa seguivo una lezione di Labor Economics in cui si parlava di istruzione e lavoro. A cosa serve andarsene in giro per il mondo, cercare università prestigiose, accumulare titoli di studio, (al di là di una eventuale realizzazione personale) se non per avere maggiori possibilità di trovare un lavoro e minori possibilità di perderlo in modo ingiustificato? La formazione è un modo per diventare lavoratori tutelati. Certo che questo ragionamento sembra un po’ irrealistico se ci si guarda intorno, però è così e ricerche portate avanti dall’OCSE confermano questo dato. Il mio professore ci ha quindi sottoposto una serie di grafici in cui si analizzava proprio la relazione tra grado di istruzione e possibilità di perdere ingiustificatamente il proprio posto di lavoro. <br />
Il grafico più generale metteva in luce una situazione rosea, che suffragava l’ipotesi dell’istruzione come segnale di produttività e come tutela per la propria condizione di lavoratori. Peccato che le statistiche generali non dicano molto, non considerando per definizione le differenze, spesso sostanziali, tra gli individui del gruppo preso in analisi. E così scendiamo nel dettaglio, guardiamo le statistiche per gli uomini e per le donne separatamente e prendiamo in considerazione, nei due campioni, gli individui in possesso di un titolo di laurea magistrale. La realtà ci si palesa come una brutta sorpresa davanti ai nostri occhi di studenti talmente presi dall’ideale dei modelli da perdere del tutto il contatto con la vita vera. Livelli medio alti di istruzione garantiscono, nel mondo del lavoro, una tutela per i maschi. Al contrario, avere o meno una laurea magistrale offre una minima garanzia di stabilità lavorativa per le donne. In pratica, se sei femmina, al di là della tua produttività e dell’efficacia dei tuoi studi, sei molto più esposta al rischio di essere licenziata senza ragione apparente. Bello. Quel grafico mi sembra la scoperta dell’ovvio, eppure il mio professore sembra sorpreso. Secondo me finge perché io quella che lui chiama “inspiegabilità del dato” non la vedo proprio. Io credo che lui la risposta l’abbia ben chiara. È uno in gamba. Chiede però a noi di intervenire, di spiegare secondo noi perché c’è uno scarto così grande tra uomini e donne. <br />
Una ragazza americana interviene con una motivazione che suonava così: gli uomini lavorano in più ambiti delle donne quindi magari acquisiscono più competenze. Cosa? Io stavo giusto alzando la mano, ma ascolto la risposta e sento che mi sto incazzando, quindi me ne sto zitta. Mi dico che non mi va di passare per la femminista di turno, chissà perché poi. Ad ogni modo io ero e rimango convinta che le donne siano più esposte a licenziamenti improvvisi e immotivati perché non danno per definizione le garanzie di continuità sul posto di lavoro offerte invece dagli uomini e perché, soprattutto, necessitano di garanzie che i datori di lavoro non si vogliono proprio prendere il compito di offrire. Quante delle donne considerate per quell’indagine sono state licenziate all’improvviso perché aspettavano dei figli e non avevano diritto a nessun periodo di maternità? Se sei incinta poco cambia che tu abbia un diploma di liceo, la terza media o un dottorato; ci sarà comunque un periodo, per quanto breve se oltre ad essere femmina sei pure stakanovista, in cui non potrai lavorare, quindi per la tua impresa sei un costo, un peso. Forse il tuo grado di istruzione potrà essere una garanzia solo se sarai talmente produttiva da azzerare praticamente, con il tuo stesso lavoro, il costo del tuo periodo di maternità. Purtroppo non ho prove per supportare questa mia idea, ma credo di non aver sbagliato. Di certo ci saranno anche altre motivazioni che la parzialità del mio punto di vista per ora mi impedisce di considerare, ma questa per me rimane fondamentale. <br />
D’altra parte non mi sembra di aver detto una grande verità altrimenti non svelata. Pratiche come quella delle dimissioni in bianco sono note a tutti come è noto che le donne hanno in media ancor meno probabilità degli uomini di ottenere lavori a tempo indeterminato, come è ancora noto che gli stipendi delle donne rimangono più bassi di quelli dei loro colleghi maschi. La RATP, azienda che gestisce i trasporti urbano di Parigi, ha lanciato una campagna pubblicitaria con manifesti che invadono autobus e stazioni delle metro in favore della parità dei salari tra maschi e femmine. È di grande efficacia, però mi viene da chiedermi se in casa loro questa parità esista. <br />
La sostanza è che l’esistenza di una donna è sempre un’esistenza sdoppiata: da un lato le aspirazioni, il lavoro, tutte quelle attività che derivano dal fatto di sentirsi cittadina e basta, essere umano e basta; dall’altra i ruoli che la cultura e la società hanno imposto nel corso della storia, tanto da essere percepiti come “naturali”. E si tratta di uno sdoppiamento che si vive costantemente e che deriva dal fatto che il ruolo della donna è sempre stato visto in opposizione a quello dell’uomo e, cosa fondamentale, come un derivato di quest’ultimo. La donna è immanenza, l’uomo è trascendenza. Se la donna cerca di uscire da questa condizione diventa “uomo”. Una volta mi è capitato di sentirmi fare un complimento, o almeno la persona con cui parlavo doveva pensarla così. Mi venne detto che io pensavo come un uomo, ovvero da un punto di vista neutrale oltre che globale. Non reagii però la situazione mi sembrava paradossale. Ma quindi pensare come una donna significa pensare in modo parziale? E l’uomo ha invece il controllo dell’assoluto? Evidentemente si, secondo lui. In fondo il pensiero maschile si è affermato per millenni in una condizione di totale monopolio, basata per come la vedo io su una predominanza fisica ancestrale del maschio e sulla capacità di generare la vita della femmina. E i ruoli si sono semplicemente calcificati nei secoli. L’uomo mette la donna nella condizione di fare i figli, la donna li mette al mondo, li accudisce e li cura e fine dei suoi compiti. E su questo dato di fatto che è vero da quando esiste il mondo si è basata la nostra storia. Non starò qui a lamentarmi del fatto che nella democratica Atene le donne la cittadinanza non l’avevano. E però mi delude Rousseau, mi delude la sua democrazia diretta che per esistere necessita di cittadini che possano non dedicarsi ad altro che alla politica, e perciò anche di gente fuori dal contratto e quindi priva di diritti che non faccia che lavorare (gli schiavi) o che badare alla dimensione privata (le donne). Mi delude perché mi porta a pensare allo scarto tra il progresso della condizione umana e il progresso della condizione maschile. Di nessun passo avanti per l’umanità si può parlare se include solamente una parte di quell’umanità. La storia delle donne, rispetto a quella degli uomini, è iniziata con millenni di scarto.<br />
Il maschilismo non è l’opposto del femminismo. Il primo è, oltre alla conservazione del mondo così come esiste, la negazione di problemi altrettanto reali; il secondo è stato ed è una grande rivoluzione del pensiero, con la finalità alta di riscrivere la storia e progettare il futuro da un punto di vista nuovo, prima inesplorato. Essere femministe non significa, come a volte sostengono spaventati uomini, anche molto intelligenti, con cui mi trovo a discutere, presupporre una superiorità della donna sull’uomo e quindi teorizzare la necessità di togliere gli uomini dalle posizioni di potere per sostituirli con le donne. Il femminismo non è la lotta accanita delle donne contro gli uomini, ma lo studio autocosciente delle cause che hanno portato le prime in una condizione di subordinazione e i secondi in uno stato di superiorità. Il femminismo è un metodo di indagine, è una prospettiva sulla storia ed è un sistema di pensiero, per niente univoco e animato da una grande, vivacissima dialettica. E se si pensa che un pensiero proto-femminista ha iniziato a svilupparsi con l’Illuminismo e che il femminismo si è affermato soprattutto nel Novecento non si può che guardare con ammirazione a quanto, in così poco tempo, le donne hanno fatto e pensato. <br />
Quanto al problema del potere, poi, ci sarebbe un’altra cosa da specificare. Anche il potere è infatti un concetto che si è sviluppato sulla base della psicologia maschile, come controllo e come coercizione. Il problema non è allora che le donne abbiano la possibilità di occupare posti di potere, diventando quelle che Vecchioni tanto facilmente chiamerebbe le stronze “come un uomo”, ma ridefinire il potere stesso, ad esempio, come “responsabilità”. Le donne non sono a prescindere più buone, calme, docili e remissive degli uomini. Queste caratteristiche non sono dati naturali, ma dati sociali plasmati dalla cultura, dall’educazione e dai modelli che storicamente si sono imposti. Le donne non sono entità venerabili, sono esseri in carne ed ossa e come tali hanno pregi e difetti, di differenziano fra loro, fanno le scelte di vita più disparate. In Relazioni Internazionali, ad esempio, ci si è interrogati su una questione: le donne sono più pacifiche degli uomini? Illustrissimi teorici liberali sono arrivati a sostenere che le donne non occupano posizioni di potere in ambito internazionale perché sono troppo riflessive rispetto ad un contesto che è al contrario selvaggio e violento. È la scusa patetica del “ti lascio perché non ti merito…”. Tante ricerche hanno invece messo in luce non solo l’assurdità di una tale risposta, ma l’insensatezza della domanda. Se le donne come alti dirigenti siano più o meno violente degli uomini non ci è dato sapere. I casi di Capi di Stato o di Governo donne che hanno affrontato crisi internazionali anche violente sono infatti meno di dieci, un numero un po’ misero per farci un’analisi statistica. Il problema che bisognerebbe considerare è un altro e cioè, in che modo il livello di parità di genere in uno Stato influenza anche le sue scelte in ambito internazionale? Altre ricerche confermano che gli Stati più equi sono anche i più pacifisti. E questo è quanto. Nel senso che il problema delle donne non è proprio quello di mettersi a giocare a fare gli uomini, ma quello di progredire come soggetti di pari grado rispetto ai maschi. Il progresso delle donne è il progresso della società; quando i gruppi che chiamiamo minoranze solo perché sono subordinati ad un gruppo dominante si emancipano, ecco che si verifica il progresso, quello vero, quello di tutti. <br />
Ora il problema è quello dell’azione e riguarda una pluralità di campi: politico, morale, economico. Le donne dovrebbero chiedersi un enorme “Che fare?”<br />
Le femministe degli anni settanta, che pure tutti indistintamente dovremmo ringraziare, hanno sbagliato, per eccesso di ottimismo, nel considerare le donne come una collettività omogenea e desiderosa di ottenere gli stessi obiettivi perché conscia della propria condizione assoggettata. La storia ha dimostrato che non è così. Per quanto io resti convinta del fatto che essere femministe significhi solo avere del buon senso e una discreta capacità di rendersi conto di ciò che è reale, è ovvio che questa rimane una mia opinione personale ed è anche ovvio che non è universalmente accettata. Le battaglie di “Se Non Ora Quando?” dell’anno scorso in Italia, ad esempio, hanno dimostrato quanto sia difficile portare avanti un discorso femminista in una società in cui il relativismo ha portato all’obbligo di accettare acriticamente qualsiasi atteggiamento se non si vuole correre il rischio di essere tacciati di moralismo. La critica di SNOQ era ad un sistema di potere che si basava non solo su una conclamata predominanza del genere maschile, ma cosa ancor più grave, sull’utilizzo delle donne solo come oggetto dei potenti, scambiate come merce per denaro ad uso e consumo di determinati detentori di poltrone. Il movimento fu criticato a sua volta; si parlò da più parti di puritanesimo, di moralismo, di puzza sotto il naso e di atteggiamento radical-chic di sinistra. È una critica facile e comodissima, basata sul fatto che le ragazze che si erano prestate al gioco del potere erano tutte perfettamente consapevoli e complici e poiché di libera scelta si trattava, allora non era criticabile. Come si risponde all’ovvietà? Uscendo dal relativismo e avendo il coraggio di vedere le cose da un modo di pensare opposto, che metta alle basi il rispetto della dignità umana. La dignità delle donne non è calpestata dal fatto che alcune, forse convinte di essere più furbe, decidano di fare di sé l’oggetto della propria effimera fortuna. Non provo alcuna compassione per chi fa queste scelte, ma nemmeno mi viene da esprimere un giudizio. Viaggiamo su binari diversi. La dignità delle donne è calpestata se il loro ruolo è ridotto a questo e a pochi altri, e se questi vengono presi ad unici modelli di vita possibili; se sono considerate sempre al secondo posto; se quando sono al primo si dice di loro che sono talmente in gamba da sembrare uomini, come se non fosse stata proprio la loro identità di donne a portarle a quelle posizioni; se per raggiungere quel primo posto sono costrette a rinunciare ad una vita privata; se per avere una vita privata devono mettere da parte ogni aspirazione, ogni volontà. <br />
Dalla parità siamo lontani, e non serve un occhio troppo attento per capirlo. I giornali italiani hanno parlato per quasi una settimana di un tatuaggio a forma di farfalla sull’inguine di una donna di spettacolo, questo fatto basta a dare conto dello squallore in cui sguazziamo. Perciò io non credo di avere grandi cose da festeggiare oggi, ma da riflettere c’è tanto. E da riflettere hanno tanto gli uomini. <br />
Se c’è una cosa che il femminismo può insegnare è proprio la capacità di fare dell’autocoscienza uno stile di vita necessario. Certo che voi non avete mai dovuto mettere in discussione voi stessi, chi crede di aver vinto può godere del trionfo, per quanto in modo subconscio, non deve chiedersi perché ha vinto. La storia l’avete cucita e scucita, il pensiero è fino all’Ottocento esclusivamente maschile; il punto di vista dominante è sempre stato il vostro e questo ha fatto sì che diventasse l’unico, oltre che quello Universale, quello valido per tutti (avete mai pensato all’assurdità dell’espressione “Suffragio universale maschile?”). <br />
Perciò non regalateci mimose, non santificate le vostre madri che loro si santificano già da sole. Chiedetevi però quante volte avete detto o pensato di una donna che era una “puttana”, quante volte discutendo con una vostra amica, una conoscente o altro avete creduto di essere portatori di un’idea a prescindere più valida; quante altre volte avete giudicato una donna, o cambiato parere su di lei, perché era “la donna di” un vostro amico, e vi siete invece accaniti contro altre volontariamente non protette da nessuno e capaci di esprimersi in modo del tutto autonomo; quante volte avete dato ad una donna dell’isterica, pensato di una vostra insegnante che era severa perché “è frustrata, non scopa”; pensato che se una ragazza è stata violentata forse se l’era cercata.<br />
Quanti altri errori commessi quotidianamente, senza pensarci in molti casi, ma che se ripetuti in eterno diventano stereotipi che vengono spacciati per verità e che per questo arrivano a giustificare l’inaccettabile. Prendetevelo anche voi il diritto e il dovere di mettervi in discussione, noi ce lo siamo guadagnato al prezzo di grandi sofferenze. Una magra consolazione.<br />
Buon Otto Marzo insomma, nonostante tutto.<br />
<br />
<o:p></o:p></span></div><span style="font-size: 11pt; line-height: 115%;"><span style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Ilaria<br />
<br />
p.s. Cari Compagni e Care Compagne di Ateneinrivolta, non capisco il senso di usare l’asterisco al posto delle vocali finali degli aggettivi e dei nomi che usate nei vostri comunicati. Car* compagn* non esiste. Il sesso neutro non esiste, ci sono le femmine e ci sono i maschi. A dover esistere sarebbe il Genere neutro, ma non sarà l’essere interpellate per prime o per seconde a farci fare un’idea della nostra condizione, non sarà l’annullamento delle diversità in un miscuglio indistinto ad affermare la parità; a farlo sarà la valorizzazione delle differenze. Ma questo è solo ciò che penso io.</span></span>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-70632480877613756802012-02-27T14:00:00.002+01:002012-02-27T14:04:46.067+01:00“Bella, che ci importa del mondo?”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/07aQnHRZsCI?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"> Ho messo la sveglia alle sette e mezza, e per tutta la notte mi sono svegliata convinta che fossero le sette e mezza. Una nottata strana e poi una mattinata convulsa, di cielo basso e con l’impressione che l’inverno finalmente sia finito. Esco di casa senza cappotto e chiudo a due mandate la porta. Ho lasciato una pentola da lavare. Pazienza, lo farò domani. Metropolitana, aeroporto, colazione, volo. Un’ora per aria come stare su un autobus, senza nemmeno un bagaglio, fatto salvo il mio panico da vuoti d’aria e turbolenze. Giulia, che si fa viaggi intercontinentali da quando è nata, deride le mie invettive variegate ogni volta in cui percepisco la minima sensazione di non avere i piedi piantati per terra. E questo è essere ansiosi, aver paura molto prima che sia necessario farlo. Ho comprato La Repubblica, tanto per ricordarmi dove sto andando. In realtà leggo solo un articolo su Gramsci, pure brutto e abbastanza inutile a mio avviso, più di pettegolezzo su microscopici dettagli biografici che di sostanza sulla sua opera. Ma tant’è. Atterriamo un’ora dopo a Linate, ed è piena mattinata. Giulia blatera di pizza al taglio e di mortadella e si scaraventa contro il primo bancone di un bar, dove chiede un caffè macchiato, perché in Francia il caffè o è nero e lunghissimo, o è cappuccino con latte a lunga conservazione, o non è. Io sono ancora stordita, mi viene l’istinto di andare a recuperare la valigia ad uno dei soliti tapis roulant affollati di gente convinta che se non afferrasse il bagaglio al primo giro, quello poi sparirebbe per sempre, risucchiato da uno di quei meandri nascosti degli aeroporti, che sanno tanto di dietro le quinte inaccessibili. Però la valigia non ce l’ho. Ho una borsa che è la stessa che uso per uscire la mattina e andarmene a SciencesPo. Seguo Giulia al bar e il caffè macchiato me lo prendo pure io, e nel frattempo ho già chiesto almeno due “pardon” e “merci”. Poi usciamo fuori e la sensazione che avevamo provato appena scese dall’aereo si moltiplica, si ingigantisce. C’è nell’aria odore di caldo, vento già tiepido e il sole sbatte fortissimo sull’asfalto delle strade. Da quanto tempo non vedevo quell’azzurro? L’Italia agli albori della vita nuova è qualcosa di eclatante, è l’apoteosi della gioia, è il colore che ritorna se stesso dopo le nuvole, la pioggia, la neve fastidiosa che ti bagna le scarpe, quella noia di stagione che è l’inverno. Non ho chiaro dove mi trovo, al di là della nazione evidentemente, e penso che quel Linate in cui mai ero atterrata potrebbe essere vicino a qualsiasi città, Roma come Firenze . C’è solo quella pianura sterminata a ricordarmi la geografia lombarda, rotta dalla mano dell’uomo, che l’ha riempita di grossi cubi di cemento, simboli di un potere monopolizzato e ben nascosto dietro i vetri a specchio. Ma non sembra di stare a Milano. Il ragazzo del tabacchi è simpatico, le persone chiedono informazioni con gentilezza; nessuno nell’autobus pieno e silenzioso che abbiamo preso per arrivare in centro guarda Giulia stranito, quando lei parla al telefono con la sua voce alta ed entusiasta. Ci penso io a lanciarle un’occhiata burbera di quelle mie, come a dire “guarda che qua le persone parlano la nostra lingua, e se urli ti capiscono tutti”. So essere di una pesantezza di cui ogni volta mi pento, ma che almeno ho imparato a riconoscere. Non capisco neppure io perché la guardo così, come se ci fosse qualcosa di male nell’aver preso un aereo da Parigi per stare un giorno in Italia, causa uno degli ultimi concerti della carriera di Fossati. E infatti smetto di fissarla con quel tono censore e mi metto a guardare fuori, Viale Corsica che è un rettilineo infinito che comincia proprio con l’aeroporto e finisce non so dove. Scendiamo a pochi metri da Piazza San Babila, uno dei miei tre punti di riferimento in una città conosciuta a tratti, e per merito o per colpa della mia amica Fra. In giro è pieno di gente e noi siamo già in maniche corte, accaldate dalla primavera o dall’entusiasmo. Giulia ora parla di pasta, io mi lamento perché ci sono in giro bambini mascherati. Ma carnevale non è finito!?!? Porca miseria, il carnevale ambrosiano. Ci buttiamo nel delirio del centro, che altro non possiamo fare. Via fra bombolette di schiuma e tentativi molteplici di venderci maschere o coriandoli. Cerchiamo un ristorante, che abbiamo voglia di pasta. E intanto cammino e mi rendo conto mio malgrado che forse Milano è bella. Che sarà che oggi lo smog non si sente, saranno questi ragazzini vestiti da arlecchini o questi adulti sgargianti; sarà che è carnevale e la gente è proprio contenta, sarà il sole, sarà l’Italia, sarà staccare la testa dall’università, sarà pensare a quanto mi sento bene per aver preso quest’aereo da Parigi e quanto sarà bello ritornarci il giorno dopo. Davanti al Duomo ci fermiamo un attimo, sembra messo meglio del solito anche lui. Poi guardiamo La Scala di lato, che la fame è più forte della voglia di fare del turismo. Nel ristorante un’elegantissima anziana e una quarantenne pronta a negare le sue iniezioni di botox ordinano “qualcosa di fresco e leggero” e parlano di “un evento che nasce come concetto di mercatino e diventa expo d’arte”… EH!??!. E’ pure la settimana della moda da queste parti. Ci mettiamo a fumare dopo il nostro pranzo di gnocchi e di ravioli in una piazzetta che sembra Bologna. L’aggettivo bello si spreca, realizziamo che forse la nostra gioia sta diventando melense, quasi sicuramente patetica. E nonostante questo la rivendichiamo, ridiamo di noi. E ce ne andiamo verso il Castello sforzesco e lungo il cammino c’è il Teatro Piccolo. E ancora mi rendo conto che questa città che a priori come tante cose avevo così spesso maltrattato, detestato, insultato, non è brutta né grigia né fredda, affatto. Giulia che ormai mi conosce mi invita a ragionare e a non parlare. “Ricordati che è una giornata particolare, non sarà certo tutti i giorni così. Ricordati che siamo felici per questo microscopico finesettimana. Ricordati che in questo stato mentale avresti amato qualsiasi città”. La voce di una ragione netta, inconfutabile. </span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"> E allora camminiamo nei nostri vestiti francesi e io in quella che Fra ha soprannominato “questa giacca da lesbica”. <br />
Ragiono sulla relatività dello spazio e su come la provenienza influenzi le nostre credenze sui posti in cui stiamo. Milano vista un momento con gli occhi di Parigi è piccolissima e umana; le persone si confondono nella loro diversità, sono una marea viva e vociante di grande imponenza, non appartengono a nessuno stereotipo. Sono gentili, sono scorbutiche, pronte allo scherzo e irascibili. E si snodano come tentacoli lungo le strade, le riempiono dei loro discorsi seri e velleitari. Mi ricordo di quello che avevo letto su Milano nelle pagine di Rossana Rossanda, del suo definire quella città come l’avanguardia d’Italia, il centro da cui le influenze che vengono da fuori si sintetizzano e iniziano a diramarsi a meridione, il punto di contatto con l’Europa e col mondo. Deve avere ragione perché io sento di stare in un posto che è Italia e basta e che all’improvviso non ha nessuna connotazione. Questo sole giallo non mi sembra così diverso da quello della mia Formia stretta dalle montagne sull’acqua del golfo. E anche quell’odore senza nome, ma che ti fa dire per un secondo “casa”, anche lui è simile. Sento mia madre al telefono per il suo compleanno e la sento per un momento raggiungibile, vicina. L’Italia è troppo piccola perché le distanze che ci sembrano invalicabili esistano davvero. Siamo tutti più simili di quanto non ci piaccia credere, un po’ statici nel nostro proverbiale, atavico campanilismo inventato. Non temo quel miscuglio di individui e non mi sento giudicata come mi era capitato le altre volte in cui ero approdata in questa città, venendo dal sud e dall’adolescenza. Mi sento cittadina di un mondo troppo vasto perché dal mio aspetto si possa riconoscere la storia breve che mi porto appresso. Mi confondo in una folla di individui qualunque e ciascuno a suo modo e mi sento bene. <br />
Incontriamo Fra che si muove nel suo ambiente perfettamente a suo agio e per la prima volta sento di non dovermi nascondere dietro lei, ma di poterle camminare affianco. Chiacchieriamo tra un bicchiere di vino e un attimo di sarcasmo. S’è fatta sera e le luci dei lampioni illuminano adesso le vetrate del Duomo, che noto per la prima volta e che sono così belle. Io e Giulia ci avviamo verso la stazione, un altro autobus e poi il Teatro degli Arcimboldi, che sarebbe raggiungibile a piedi in una passeggiata di trenta scarsissimi minuti, se non l’avessero collegato al centro con quella specie di tangenziale desolante. Al concerto di Fossati vige un religioso silenzio, che io trovo in certi casi controproducente. Mi dico che se fossi un cantante e la gente non cantasse le mie canzoni ai concerti io un po’ mi deprimerei. Lo ripeto a tutti da due giorni e tutti mi dicono che i concerti di Guccini hanno fuorviato la mia visione delle cose. È possibile, ma io il religioso silenzio non lo rispetto e ci scappa proprio una bella cantata urlata e liberatoria sull’ “e mi sogno i sognatori che aspettano la primavera o qualche altra primavera da aspettare ancora…”. <br />
Fra ci ospita nella sua casa di Monza per la notte. Grace mi fa finalmente le feste. Peli di cane buono, felice. La mattina dopo colazione con due cornetti alla crema e Maurizio che per pranzo arrostisce polli e ci fa un antipasto a base di mortadella che quasi quasi ci commuove. C’è ancora il sole e Monza rilassa, è domenica mattina e le pasticcerie hanno code di padri di famiglia in attesa dei loro bignè; i bar pullulano di vecchi che discutono di Juventus e di Milan. Sembrerebbe davvero di stare a casa, se l’accento fosse tendente al napoletano e non brianzolo. Ma il carattere è proprio lo stesso. Dopo pranzo ce ne andiamo in aeroporto, e nel giro di mezz’ora siamo sull’aereo che ci riporta a casa, in preda a uno schema di Bartezzaghi che mi pare di non aver visto per anni. Parigi è nuvolosa, e le boulangeries sfornano baguettes e pani al burro di ogni tipo e dimensione. Me ne ritorno alla mia Porte de Clignancourt e in un momento di relax e di pensieri affollati mi metto ad ascoltare radio tre. C’è Nanni Moretti, una sorpresa che mi sembra fatta apposta, e che mi fa sorridere. E mi addormento stordita da questi due giorni inconsueti e meravigliosi, fuori dal tempo davvero. E stamattina mi sveglio e fuori c’è il sole ed è forte, l’aria è pulita e se non vedessi qui vicino la fermata della metro e se la gente non parlasse questa lingua meravigliosa che è il francese, sembrerebbe proprio di stare a casa. E a casa ci sono; la mia ennesima casa fra le tante che ho vissuto, questo crocevia di boulevards, questa pianura interrotta da una punta sola, questo mare di palazzi eleganti, questa Babele di kebab. E di pane e salame. </span><o:p></o:p></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0Paris, France48.856614 2.352221900000017748.813328 2.2293609000000179 48.8999 2.4750829000000176tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-89404974526242251772012-02-22T15:57:00.000+01:002012-02-22T15:57:40.459+01:00Lettera apertissima, o le risposte che non ho dato<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-cS94PjonH78/T0UB8pT3sSI/AAAAAAAAABg/zRdxRlR8COQ/s1600/semainesang.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="265" src="http://3.bp.blogspot.com/-cS94PjonH78/T0UB8pT3sSI/AAAAAAAAABg/zRdxRlR8COQ/s400/semainesang.jpg" width="400" /></a></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Non ho seguito un consiglio che mi è stato dato; quello di evitare di pensare a determinati discorsi con cui sono stata inondata per non distogliermi dal mio raccoglimento amendolian-fumatore. Non fumo tabacco pensando ad Amendola, non mi diletto a spendere tempo coltivando una presunta profondità che non mi appartiene o che, se mi appartiene, con un atteggiamento di chiusura o di banalissima, comunissima riflessione, non può che restare uno sterile accumulo di nozioni. Però in questi giorni ho fumato tabacco pensando alla società, al perché la ritengo così importante, al perché sono di sinistra, al perché vado affermando il mio amore per Parigi giustificandolo con il fatto che qui ci si sente inosservati. Soprattutto, in questi giorni ho fumato tabacco insultandomi in silenzio per non essere riuscita a rispondere a nessuna di queste domande, quando mi sono state poste, e per essermi sentita la chiesa su cui un simpatico individuo ha defecato. E la risposta qui è facile. Non mi sento a mio agio davanti al plotone di esecuzione. Non è rilassante partorire risposte sapendo di dover pesare ogni parola perché di ogni tua affermazione verrà messa in risalto la contraddizione rispetto a qualcosa che avevi affermato poco prima, o l’assenza di una base valida su cui fondarla. Si genera in quel caso il meccanismo mentale che per anni mi ha portata a non fare mai una domanda a lezione, a non intervenire mai in un dibattito; quello che ti porta a ragionare talmente tanto su una cosa intelligente da dire per non sfigurare, che le plausibili conseguenze sono solo due: o viene alla luce il pensiero più inutile che la mente umana abbia mai creato, o stai in silenzio in una completa,benché apparente, mancanza di idee. Ora, io non sto certo qui ad accusare nessuno di essere un plotone di esecuzione, potrei essere io a sentirmi il condannato in modo del tutto ingiustificato, o per una paranoica mania di persecuzione. L'ardua sentenza, sempre, ai posteri. E’ sempre una questione di percezioni e di punti di vista. E il mio punto di vista mi ha portata più volte a chiedermi, in una conversazione (leggi monologo) in cui mi sono imbattuta qualche giorno fa, se l’interesse del mio interlocutore fosse conoscere quello che pensavo su determinati fatti, farmi rendere conto dell’abisso di ignoranza in cui, a suo modo di vedere, vegeto, oppure testare la mia progressione intellettuale (paroloni, ma è per rendere l’idea) per capire se avesse davvero avuto senso parlare con me e se, nel caso, avesse senso parlarci ancora. Delle tre, l’ultima mi sembra fuori da ogni dubbio la più veritiera. E anche la più assurda. Dal mio punto di vista, è chiaro.<br />
Detto questo non vedo nessuna contraddizione nel fatto che contemporaneamente affermo di stare bene a Parigi perché qui si può stare anche da soli e di assegnare grande importanza alla coesione sociale. <br />
Nella prima affermazione c’è niente altro che un bisogno di indipendenza e di libertà. Non siamo nati per mettere tutta la nostra vita in comune con gli altri, ma anche per poter essere indipendenti, in mezzo agli altri. Si è liberi anche quando non si sente lo sguardo e il giudizio della gente addosso, condizione che chi viene dalla provincia capisce perfettamente. Si è liberi quando si è ignorati perché ciò significa che la gente che ti circonda ha imparato ad accettare comportamenti e stili di vita diversi dai suoi come dati di fatto su cui non si ha il diritto di sindacare, perché rientrano nella sfera della vita privata di ciascuno. Questo non significa volontà di mettersi al riparo dal mondo, ma mischiarsi, con le proprie personali e opinabili peculiarità, in una gigantesca moltitudine di individui liberi di essere come vogliono. <br />
La coesione sociale è un’altra cosa e rientra nell’ambito pubblico. Come gli uomini non sono fatti per mettere tutta la loro vita in comune, non sono neanche fatti per passare tutta la loro beata esistenza in uno stato di autarchia totale, ad eccezione del Nanni Moretti dei tempi prima dell’oro. E questo lo dimostra una banale constatazione della realtà. Perché dovrebbero esistere le famiglie, o i gruppi di amici? Perché altrimenti l’uomo dovrebbe sentire la necessità di consultarsi continuamente con i propri simili, di ricercare punti di vista diversi oppure di omologarsi per sentirsi appartenente ad un gruppo di pari? E tu dirai, non lo so ma forse lo dirai, che la socializzazione primaria e secondaria non rispondono a dei bisogni individuali, ma servono ad indirizzare gli individui verso comportamenti accettati dagli altri e che non sono naturali, ma costruiti perché utili al modo in cui la società stessa funziona e si riproduce. Ed io con questo fatto sono solo parzialmente d’accordo. Perché se è vero secondo me che la società, per sopravvivere nelle sue forme, richiede persone in grado di stare fra gli altri in un modo a lei funzionale, è pure vero secondo me che lo stato di natura di Locke è completa finzione e che gli uomini non hanno dato vita agli stati ed alle società perché erano talmente buoni, bravi e razionali da farsi venire in mente un’idea ancora più buona, brava e razionale e capace di rendere ancora più efficace il godimento di diritti già esistenti nello stato di natura. Io credo che gli uomini abbiano dato vita agli stati ed alle società per una volontà di controllo reciproco, per sentirsi tutelati da ogni rischio di prevaricazione, per poter vivere pacificamente in mezzo agli altri, condividendo i beni pubblici e lavorando per guadagnarsi quelli privati, finalità per cui è valsa la pena rinunciare ad un pezzo della propria autonomia. La società plasma gli uomini ma è fatta di uomini e da loro a sua volta è plasmata per rispondere ad interessi che loro hanno e che percepiscono come fondamentali. <br />
E qua veniamo alla giustizia sociale. Perché dovrebbe avere così tanta importanza? Perché solo se tutti hanno la possibilità di scegliere e di lavorare per costruire la vita che hanno in mente e che desiderano allora tutti sono liberi. Libertà non è libertà dagli altri, ma libertà con gli altri. E se è vero, come diceva Simone Weil, che la si raggiunge solamente con l’alienazione del lavoro che ci dà la possibilità di vincere noi stessi, è pure vero che se una gran parte delle persone non fa che vivere in uno stato di alienazione fine a se stesso perché privo di qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni proprie o di chi verrà dopo di lui, allora vivere non è che una ripetizione automatica di gesti senza alcuna finalità per sé, fino al giorno in cui si muore. Un minimo di giustizia sociale è necessario per garantire a tutti il godimento della propria umanità. E allo stesso tempo dal momento in cui si sta in delle società fatte di regole che abbiamo scelto di mettere in piedi, visto che nessun dio le ha imposte, allora quelle regole vanno rispettate. Dal momento in cui mettendosi con gli altri gli uomini hanno rinunciato ad una parte della loro autonomia, non è più un comportamento sociale quello dell’individuo libero da ogni restrizione rispetto a quello dell’altro talmente costretto dal suo stato di necessità da diventare schiavo di tutto. A quel punto nella società non ci stiamo più. A quel punto siamo in una specie di grosso stato di natura, fatto di diffidenza reciproca, di solo individualismo e ancora di lotta e di prevaricazione, a cui i soggetti più potenti hanno dato una parvenza normativa mettendo delle regole a privilegio di se stessi e a discapito della maggioranza, spacciandola per una condizione utile a tutti. <br />
Per questo mi sento una persona di sinistra, perché gli uomini stanno insieme per tutelarsi insieme ed è possibile farlo solo se tutti hanno la possibilità di emanciparsi dalla propria condizione di partenza. L’uomo alienato non è uomo; l’uomo schiavo non è uomo.<br />
Bene, ho risposto all’interrogazione con questo mediocre compitino che tutto sommato ho affrontato per il gusto che ho di mettermi in discussione, di espormi al giudizio o, che ne so, in modo masochistico al pubblico ludibrio. Ma i commenti non li temo, la sensazione di partecipare alla mia derisione mi infastidisce decisamente di più.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Con la coscienza apposto, i puntini sulle “i” e tante scuse a poveri ,immensi pensatori da cui derivo le mie idee,<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
Ilaria<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
p.s. Ora potrò dedicarmi di nuovo ad altre e più basse attività, tipo leggere Memorie di Adriano. Così poi potrò fumare tabacco anche pensando a Yourcenar.</span> <!--[if !supportLineBreakNewLine]--><br />
<!--[endif]--><o:p></o:p></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-25034553709717505872012-02-19T16:18:00.000+01:002012-02-19T16:18:54.073+01:00Monologhi<div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Perché? E’ la domanda che fanno i bambini, mossi sempre dal desiderio di conoscere il motivo, di capire in senso. E’ la domanda figlia della curiosità e per questo potrebbe essere ripetuta in eterno, fino a che c’è qualcosa da capire, un particolare non detto, un aspetto poco chiaro. E nelle risposte c’è sempre qualcosa di sorprendente, di nuovo che sa di rivelazione. E in quella rivelazione ancora un dubbio su cui si è glissato, coscienti dell’impossibilità perlomeno momentanea di scioglierlo. E su quel dubbio, su quel tono ora più basso della voce, sul momento di incertezza si inserisce di nuovo la domanda. Perché? Ripetuta fino allo sfinimento, fino a che tutto sarà compreso in poche frasi chiare, immediate. <br />
Ma l’immediatezza la si perde per strada, appena si intuisce l’importanza del silenzio, la necessità della riflessione e si sceglie di coltivarla in contrasto alla facilità con cui si spacciano ovvietà per verità, punti di vista soggettivi perché storicamente e socialmente determinati, per dati di fatto inconfutabili. E se poi è un adulto ad incalzarti coi perché, con domande che non vogliono arrivare a capire come la pensi partendo dal presupposto che ciò che pensi ha già un suo valore nello sforzo che sta dietro la formazione dell’opinione, ma metterti in difficoltà fino a farti dubitare della validità del tuo pensiero, fino a criticare l’assenza di radici del tuo sistema di valori, per svelare che il tuo non è forse neppure un pensiero, ma una massa di credenze nemmeno coerenti, di assunzioni para-metafisiche incollate come un brutto puzzle per far sfoggio di una presunta, inconsistente profondità, allora arrivi alla resa. E ti ritrovi stanca, svuotata. L’umiliazione la percepisci perché ci tieni a confrontarti con le persone, a maggior ragione se le ritieni meritevoli di stima, e a prendere spunto dai pareri che ti vengono offerti e capire se anche tu puoi arricchirli di un aspetto che non era stato considerato. Il confronto è per me condivisione, regalo reciproco. Ma dal momento in cui da scambio di prospettive ugualmente dignitose si passa all’univocità del sermone, il confronto diventa indottrinamento, prevaricazione ingiustificata. E mi sembra di trovarmi davanti il micro-potere di Focault. E me ne allontano delusa, e pure convinta che la demolizione sistematica non sia il modo più valido per mettere in discussione l’interlocutore o il discepolo di turno, a seconda di come il nostro ego ci consiglia di considerarlo, solo il più facile per non svelare se stessi, dietro l’aggressività colta delle proprie motivazioni, delle raffiche di domande, dei tentennamenti di cui solo agli altri si chiede conto, ingessati sul pulpito delle proprie soggettive certezze oggettive, o della propria superbia.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Ilaria</span><o:p></o:p></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-4612746541300434402012-02-08T01:03:00.000+01:002012-02-08T16:12:13.956+01:00Il più caro, il più fedele.<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif; margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="300" src="http://3.bp.blogspot.com/-fKM1Y3z4jwQ/TzG5ZTkuWjI/AAAAAAAAABQ/L3UCGmxYBwY/s400/Smile+2006.JPG" width="400" /></span></div><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-c95oe5aFLjg/TzG51xPo0rI/AAAAAAAAABY/VmAZpI93fBk/s1600/KIF_0638.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><img border="0" height="400" src="http://2.bp.blogspot.com/-c95oe5aFLjg/TzG51xPo0rI/AAAAAAAAABY/VmAZpI93fBk/s400/KIF_0638.JPG" width="300" /></span></a></div><a href="http://1.bp.blogspot.com/-KGMplSQOFKg/TzG5UZf3tQI/AAAAAAAAABI/AOSQAZ1f6is/s1600/smile5.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"></span></a><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Mi avevano detto che non stava più bene. Tredici anni come averne addosso oltre cento, sarà stato stanco di correre nel giardino, di annusare l'odore dell'aria e ululare alla luna facendo sognare a tutti noi, pochi, che lo guardavamo, parentele con lontani lupi romantici, solitari. Me lo ricordo bene quando è arrivato. Io e Carmine non eravamo che ragazzini, otto e dodici anni e tanto tempo a pregare e implorare la presenza di un cane. Mia madre e mio padre non sono mai stati dei cinici, così quando seppero di una cucciolata, non credo ci pensarono su tanto a lungo. O forse ne discussero per bene, ma la prima ipotesi mi piace di più, e mi sembra veritiera. Andammo tutti insieme in questa campagna piena di cuccioli bianchi, tutti dolci, tutti teneri, tutti con quegli occhi nocciola di animali vispi, di vite appena nate, entusiasti di correre in un recinto, di saltarsi addosso, di mordicchiarsi l'un l'altro. Non riuscimmo a decidere, mi ricordo. E mi ricordo che andando verso la macchina uno di quegli esseri bianchi e pelosi ci rincorse per un po', col suo trottare impacciato di cucciolo. Il cane che sarebbe diventato il nostro Smile aveva scelto noi quattro, togliendoci dall'impaccio. Non era certamente il cucciolo più aggraziato, con quella coda alla fine tutta spellata, che per curarla ci volle la santa pazienza di mia madre e non so quale unguento miracoloso da spargere per farci ricrescere i peli. E i peli crebbero piano piano, divenne presto un cane bello, elegante nel suo meticciato, nel suo bianco macchiato. Ma che razza è? Un incrocio tra un maremmano e un pointer. E che cane è un pointer? Un cane da caccia, che io non avevo mai visto. Però mi avevano detto così e così io ripetevo a tutti quelli che mi ponevano l'odiosa domanda. Cosa ci sarà stato di tanto interessante nel conoscere la razza di un cane. E' lui che bisogna conoscere, è il carattere, sono le attitudini, le passioni, i giochi prediletti, le voglie irrefrenabili, i vizi. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Smile si chiamava così per un'idea di mia madre. Guardate, ci diceva, sorride. Sorrideva quando tirava fuori la lingua, affaticato da qualche corsa o dal caldo, e le labbra gli si incurvavano in una smorfia allegra, beata di goduria autentica. Forse tutti i cani sembrano sorridere quando fanno così, però Smile sorrideva di più. L'avevamo deciso noi, tutti presi dall'onorare degnamente quella nuova presenza in famiglia. Sorriso, che secondo noi si doveva tradurre in inglese con "Smart". L'errore durò un paio di giorni; un fido Garzanti italiano-inglese ci aiutò a ravvederci.<br />
Il giorno dell'arrivo di Smile a casa, lo portò papà, sentivamo che era tutto pronto. Doveva avere una poltrona come cuccia(prima di una lunga serie di mobili devastati), due ciotole, che all'epoca erano una blu e una verde acqua, e un collare. Il collare lo ricordo ancora, era di quelli ad imbragatura, non sia mai a fargli male al collo per tirarlo, mi pare verde e forse con dei pupazzi disegnati. Ci mettemmo un po' a capire come usarlo, e comunque quel collare non durò. Smile smise presto di essere un cucciolo ed anche di essere un cane obbediente. I miei hanno usato ogni tipo di guinzaglio, e non ha mai smesso di tirare nelle passeggiate sul lungomare, fino a quando la stanchezza ha preso il posto della voglia di avventurarsi per pali e palme, marciapiedi, panchine e qualsiasi cosa si ergesse in verticale, alla ricerca del posto adatto per farsi una sana pisciata. Il posto adatto era il posto qualunque. Dicevo che il giorno del suo arrivo ci sentivamo preparati, da veri naif. Chiamai il mio amico Claudio per festeggiare l'evento, presi Smile, lo misi sulla poltrona e lo coprii con un plaid. Era settembre o ottobre, doveva morire di caldo. Si divincolò presto, io mi resi conto allora che non si trattava di una bambola, e che quell'arnese peloso e zampato avrebbe potuto mettere la sua volontà contro la mia. L'ho amato molto per questo. Ad un certo punto di quel glorioso pomeriggio mamma uscì, e doveva essere fuori anche papà. Smile ci mise di fronte all'evento a cui non eravamo preparati; di fronte allo stupore di mio fratello Carmine e Claudio e al mio, fece la cacca. Il "Che fare?" ci assalì. La risolvemmo facile, paletta, scopa, scottex e una pezza. Col tempo avremmo imparato. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Da quel giorno Smile ha accompagnato le nostre vite, mai sullo sfondo, sempre come la prima traccia di casa, come un fratello, un figlio, un amico. Croce e delizia di chiunque varcasse la porta di casa nostra. Quanto a me, ho sempre messo regole chiare con i miei amici: non osservatelo, non fate i simpatici, prima o poi sarà lui a venirvi a cercare. Ha fatto così con tutti tranne che con un tipo che aveva infranto la regola d'oro. Si è beccato una nasata in fronte, e secondo me Smile aveva tutte le ragioni del mondo. Non si invadono gli spazi vitali altrui per soddisfare il proprio ego.<br />
Mamma, fra tutti, è quella che l'ha curato di più. Me la ricordo bene, per un lungo periodo infernale, svegliarsi all'alba con qualsiasi clima per portarlo a spasso. Mi ricordo i veterinari e le vaccinazioni e i microcip. Mi ricordo quando l'abbiamo portato a farsi la doccia in una specie di centro animali. Non l'avevo mai visto così ridicolo, ricoperto di spuma che lo faceva sembrare finalmente un maremmano, tanto ne aumentava il volume, e poi passare terrorizzato, e coda fra le zampe di rigore, sotto un phon di dimensioni macroscopiche che soffiava così forte da farlo sembrare un cane nella galleria del vento. Io e mamma ridemmo molto, lui restò traumatizzato. Ha odiato il phon per tutta la vita. Era una buona arma per allontanarlo dal bagno quando ci si asciugava i capelli e lui si metteva là, l'onnipresente, senza essere stato invitato. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Quanto a mio padre, credo Smile nutrisse per lui un grande rispetto. Non che fosse particolarmente ubbidiente, questa non è mai stata la sua indole, però in sua presenza si è sempre comportato in maniera composta, direi educata. Ogni tanto quando papà sonnecchiava sul divano Smile ci si arrampicava anche lui. Si sedeva, gli chiedeva qualche coccola sfiorandolo un po' con la zampa. Papà si lamentava come è nel dna dei D'Angelis, metteva il muso lui e non il cane, e poi lo accarezzava. Ha sempre dimostrato il suo affetto così, uno sbuffo e poi il cedimento inevitabile all'amore. A volte gli piazzava la bianca testa pelosa sulle ginocchia, papà lo accarezzava con le sue mani pesanti. Erano comici a vedersi. Intenerivano.C'era un periodo, che mio padre e io ci eravamo fissati con la raccolta delle noci in giardino. Sarà durato un mese? Non lo so; non so neppure se mio padre raccogliesse noci anche prima della mia età della ragione. So per certo che Smile se ne stava baldanzoso a vagare per il prato mentre noi due a schiena curva, e io con grande gioia, raccoglievamo noci da terra. Era stancante. Smile arrivava un attimo dopo. Le rubava e se le portava via come chissà quale premio. Poi le leccava con cura fino a farle belle lucide, solo a quel punto triturava il guscio e ne assaporava metodicamente il frutto. Amava le noci come amava le bucce di mela e svariati altri frutti; ai cani piace mangiare bene e mi pare di aver capito che ognuno ha il suo cibo prediletto. Smile è stato cresciuto a croccantini, per una questione di salute oltre che di praticità. E quando gli toccava un po' di pasta in avanzo, o il pane, o gli innumerevoli premi che dovevamo scambiare con lui per ottenere in cambio due secondi di obbedienza, era sempre una festa, una grande conquista. Una volta per il suo compleanno gli avevamo preparato apposta della pasta, gli avevamo messo un cappellino fluorescente di carta e gli avevamo fatto delle foto che ancora ho conservate in una delle mie scatole dei cimeli, mentre lui ingurgitava al suono di tanti auguri a te. Mi pare di ricordare che Carmine avesse cercato di opporsi a quella che doveva sembrargli una tortura, noi altri ne eravamo felici. L'idea del cappellino era stata mia, mi sentivo gagliarda, un genio. Smile era in grado di divorare piatti di pasta ad una velocità impressionante e con una tecnica degna di nota. L'azione si svolgeva così. Lui, pietoso ricattatore, era fuori dalla cucina in attesa. All'apertura della porta si metteva come sull'attenti, e quando il piatto di plastica con dentro la pasta veniva calato dall'alto, come una manna dal cielo, lui col muso lo poggiava al muro per non farlo scivolare e giù ad ingoiare, così veloce che dubitavamo riuscisse a respirare nel frattempo. Una volta impiegò qualcosa come 12 o 15 secondi. Non lo dimenticherò mai, quel momento, come tutto il resto. Ha sempre seguito mia madre in ogni suo passo ed è sempre stato al corrente di tutti gli orari delle nostre giornate. Tutti, tornando a casa, l'hanno trovato ad aspettare sul balcone, o sul pianerottolo, o dietro una finestra. Tutti noi siamo stati onorati della sua gioia, del suo scodinzolio prima vispo, poi molto serio, fino a quei flebili accenni di entusiasmo della sua stanca vecchiaia. Tutti noi lo abbiamo percepito arrivare, con il ticchettare del suo buonumore, verso il divano, porgerci il muso per l'attimo necessario a convincerci ad una coccola e poi voltarsi di spalle, a reclamare delle somme grattate sul fondo schiena, che lo facevano impazzire. Tutti noi lo abbiamo visto sgattaiolare in cucina, appostarsi sotto il tavolo del corridoio con il muso a indovinare i nostri passi, o dormire con l'espressione della beatitudine in faccia al vento e al sole delle primavere e degli autunni, per rientrare in cerca di ombra d'estate, di caldo in inverno. E per tanti inverni io e lui ci siamo scaldati insieme. Gli lasciavo la porta della mia stanza appena aperta e lo sentivo, delicato come sempre, salire sul mio letto, fare un paio di giri su se stesso e acciambellarsi ai miei piedi. Le mattine dopo, quando lui sempre prima di me si svegliava, l'acciambellata ero io e lui disteso in tutta la sua lunghezza, da principe quale è sempre stato. Smile ha curato la mia solitudine con quei suoi strani sogni notturni che lo facevano muovere come se corresse su chissà quale prateria sterminata, ha curato la mia paura della morte, della notte, del buio. Mi ha guardata crescere e ha subito le mie torture, e i soprannomi strani che ognuno di noi ogni tanto gli ha dato. Quando Carmine partì per l'università, per Bologna, Smile ha riempito il vuoto che la partenza di un fratello che ti sembra sempre più adulto e lontano, con i tuoi occhi adolescenti, ti lascia inevitabilmente addosso.<br />
Tutte le partenze che hanno contraddistinto quella mia cara casa di irrequieti, Smile le ha riempite con i suoi dispetti di cane, con la sua fiducia indiscriminata di cane. Ed ha evitato per me i vuoti irreparabili, e la tristezza di ogni separazione. E' stato una cura per tutti noi, e una riserva d'amore mai invadente e sempre presente. Andargli vicino a canticchiargli un motivetto e sentirsi osservati da quella sua faccia interrogativa, dai suoi occhi marroni, profondi e buoni, da cui mai è trasparito un giudizio. Neanche quando avrebbe avuto ragione a detestarci per averlo portato in un centro di addestramento nella speranza che diventasse un cane normale. Cosa che, per nostra immensa fortuna, non è mai stato. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">E' stato ai nostri occhi tutti gli animali del mondo. Una lucertola al sole e una gazzella, quando saltava il metro e mezzo di siepe correndo da un cancello all'altro, per abbaiare a un gatto o ad un anziano, categoria da lui sempre ardentemente detestata. E quando saltava la siepe lasciava senza fiato quando, come dice mamma, per un momento restava sospeso nell'aria, le orecchie morbide al vento, l'espressione gloriosa di cane giovane e padrone del suo mondo. E una lepre quando rincorreva altri cani, tutte femmine, sfrecciante intorno alla casa come una meteora. E quando... E quando. Non riesco a quantificare l'amore che provo per lui. Mi sembra impensabile provarci. E allo stesso tempo ricordo con una certa chiarezza ed una dose di panico infantile la volta in cui, entrando nella mia stanza, lo trovai accerchiato dai miei giocattoli. Barbie senza mani, pupazzi sventrati, e una famigliola di quattro delfini segnata dai suoi denti, alcuni senza coda, altri senza occhi. Pensai di odiarlo, poi sono cresciuta e l'ho fatto con lui e quell'episodio all'epoca drammatico è rimasto un aneddoto dai raccontare ai posteri e niente più. Sono cresciuta e Smile ha preso a mangiare le mie foto e i miei biglietti dei concerti. Nulla mi ferì come quel genocidio di giocattoli, lui era già diventato ben più importante del resto. Ci restai invece molto male quando distrusse una pagella della scuola media di Carmine. Rimase miracolosamente intatta la pagina di religione e comunque la trovai una grossa mancanza di rispetto.</span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Va detto a sua eterna discolpa che io e mio fratello non gliene abbiamo risparmiata nessuna. Raggiungevamo l'apice del nostro sadismo quando inscenavamo delle risse per vedere chi Smile sarebbe arrivato a proteggere. E proteggeva me, con minacciosi ringhi contro Carmine. Il privilegio della più piccola è anche questo.<br />
Smile è stato il nostro cane libero da collari, la nostra ombra e il pensiero eterno nelle nostre innumerevoli partenze. Che avrà provato quel suo cuore tacito nel vederci tante volte fare le valige e andare via? Mi domando quanto e quando abbia sofferto dell'andirivieni familiare, dei viaggi lunghi mesi, del vederci tornare all'improvviso a casa. Non mi rispondo per un senso di colpa che non riesco a trascurare. E che risolvo nell'eterna figura di mia madre, il nostro punto fisso e la pietra miliare di Smile, così stoica nel suo dolore materno, fino all'ultimo respiro. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">E ora mi sento un po' vuota; le immagini che prima scorrevano con facilità si accavallano e diventano come al solito nebulosa di ricordi. Avrò già scritto quello che adesso ho in mente? Sto forse correndo il rischio di ripetermi, in un finale tentativo di catarsi e di espiazione. Nella follia cosciente della non accettazione della fine di una giornata surreale, maledettamente lontana e parigina, che se n'è già andata lasciandone come sempre il posto ad un'altra, senza Smile sulla sua branda che ora so solo immaginare, e io e noi più soli. E tutti sapevamo che stava invecchiando, lo riconoscevamo nella lentezza dei suoi passi, nel corpo come rimpicciolito e spigoloso, nella stanchezza di partecipare ai giochi di Audrey, alle sue puerili, tanto belle, richieste di attenzione. Tutti lo sapevamo e nessuno in cuor suo credo che si sia arreso all'idea. Io meno che mai, con questa stupida scusa della lontananza, con i piedi fuori dall'Italia e un pezzo d'anima lasciato a casa insieme a tanti anni di vita. Io Smile non lo vedevo, se non nelle mie ricomparse opportunistiche, da conquistatrice del mondo che torna ogni tanto a riposarsi; e dunque mi riservavo di sperare. Smile l'ho percepito negli ultimi anni come una parte di me che avrei voluto trascinarmi in uno zaino per il mondo; e ho goduto con lui sprazzi di vita di autentica condivisione. Nessun rimprovero, dal mio primo ritorno dall'università, in un natale di anni fa, era più possibile nei suoi confronti. Era il mio modo per chiedergli scusa per essermene andata, per riaffermare la mia presenza, per fargli sapere che mai sarei stata da una parte diversa dalla sua. E sono passati così i nostri ultimi tre natali e le mie ultime due estati. Con la doppia sorpresa di Fabrizio e di Audrey a riempire ancora le case e le vite. Smile ha visto in Fabrizio un leale capobranco, quando fino ad un attimo prima a comandare era stato indiscutibilmente lui, ed ha accettato Audrey come un grande saggio, le ha concesso una parte dei suoi spazi senza storie, ribellandosi di rado e in momenti di vera non sopportazione. E lei gli ha fatto compagnia con la sua imponenza, quanto era bello vederli dormire insieme, vicini e stretti al termosifone del corridoio, sulle loro coperte usurate e adorate. Quanto era bello tornare a casa e trovarli sul terrazzo. Sempre in attesa, come mi sembrava che Smile avesse aspettato per anni. </span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">E non riesco a dirmi che è finita, non mi convinco che è l'ora di dormire. Non mi persuade la sveglia di domani se da domani indietro non si torna. Non lo voglio pensare solo, non lo voglio pensare nel vento, con quella rosa del giardino vicina ad una zampa ormai fredda, e che tante spine e radici e terra viva aveva toccato e scavato. Avrei voluto un'occasione ancora, un altro saluto, una carezza alle sue orecchie beige, morbide come quelle di nessun altro cane, al tatto delle mie mani di bambina e ora forse di donna. E fargli fare la faccia del cane esquimese, del cane trasvolatore, del cane pipistrello, del cane con lo chignon. E guardarlo negli occhi già sofferti mentre ancora gli sussurro un ti voglio bene che sa di un addio che non so pronunciare. Mi tormenta l'idea di non averlo salutato per bene alla mia ultima partenza, ed una parte di me non si perdona di averlo lasciato come un oggetto vecchio, alla caccia di un'altra vita da un'altra parte. Avrei bisogno di un'altra possibilità. Forse voglia dell'ennesima conferma del suo amore. Gli umani hanno bisogno di questo, e perciò i cani esistono, pronti a ringraziarci nonostante le nostre mancanze, a perdonarci con uno sguardo o una zampata il nostro altro errore. E quanto sono migliori di noi per questo. E quanto Smile è stato migliore di me. Quanto avrebbe meritato una voce, piuttosto che quell'udito che altro non ha sentito oggi da me che un pianto incessante, una cascata di lacrime, un urlo disperato.</span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Ilaria</span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span><br />
<span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><i>p.s. una dedica per te, poco prima della mia partenza, quasi tre anni fa, per Forlì. </i></span><br />
<br />
<div class="MsoNormal"><span style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><i>Smile è una ciambella di pelo color latte macchiato con poco caffè, è un cane, è una borsa dell’acqua calda. Di inverno, quando il vento umido, tagliente del mare ci viene addosso, quando fa freddo e piove e i nasi diventano rossi e i piedi soffrono ma non rinunciano ad un paio di all star, Smile è l’unico rimedio possibile. La notte, con lui rannicchiato subdolamente ai piedi del letto, non è mai buia davvero, non è del tutto triste, non dà spazio al magone da pensieri irrimediabili, alle ansie, alla paura. Poi Smile si stiracchia, si impossessa delle coperte e le scalda, ti lascia il tuo posto ma esige il suo e se lo prende senza troppa cura. E durante la notte sogna; capita che le sue zampe si agitino in un modo un po’ convulso, magari nell’immaginare spazi sterminati, oppure che russi o sbadigli o che soffi infastidito o impigrito dalla sua stessa stanchezza. All’alba, poi, ti dà il buongiorno con una zampata sulla spalla, nei casi migliori, su una guancia se hai davvero sfiga. I cani non graffiano volontariamente, ma hanno unghie lunghe, e ogni loro carezza ha la delicatezza di uno squarcio. Essere svegliati da Smile non è piacevole, almeno finchè non apri un occhio, poi l’altro, metti a fuoco e lo vedi. Seduto, col suo muso da segugio mancato a dieci centimetri dalla tua faccia, le orecchie flosce, la bocca piegata in un sorriso perenne, gli occhi pieni, profondi, buoni e la coda a spazzare la polvere del pavimento. </i></span></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-88332986496154563592011-12-14T01:37:00.000+01:002011-12-14T01:37:02.793+01:00Un'invettiva notturna troppo lunga. Un flusso di coscienza.<div class="MsoNormal"><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">In Italia le cose cambiano velocemente, così velocemente che si fa fatica a stare al passo, soprattutto da fuori. La rapidità degli stravolgimenti continua nonostante tutto a restare direttamente proporzionale alla dimensione dell’immobilità di un Paese e di uno Stato che non hanno nessuna voglia di cambiare sul serio. L’Italia è una nazione senza storia, di memoria breve e di dimenticanza facile. Un paese ignavo, senza coscienza civile, cialtrone, miserabilmente vuoto. <br />
Un mese fa si esultava, si festeggiava la fine della tirannide, si cantava la rivoluzione, qualcuno intonava bella ciao. L’Italia era appena stata liberata da vent’anni di Berlusconi e già nel populismo dei programmi di Rai Uno si rideva e si applaudiva delle oscenità compiute da un uomo sostenuto ad oltranza fino a qualche momento prima da buona parte del paese. Ma Berlusconi aveva perso consenso e in Italia senza consenso, che poi è nel nostro caso il sentimento di identificazione delle masse con il leader non si va da nessuna parte, e il capo cade, vittima delle folle che prima lo avevano acclamato, voltafaccia ed ignave. <br />
L’Europa, o meglio, il direttorio franco-tedesco, anch’esso accettato acriticamente fino a che le sue decisioni toccavano altri e non sopportato quando la scure delle sue imposizioni si è abbattuta su di noi, ci imponeva un cambiamento. I “mercati” non si fidavano di noi. E le profezie inascoltate per anni dai detestati , demoniaci economisti si sono rivelate realtà. L’Italia stava fallendo. Per fortuna la serietà delle istituzioni italiane restava incarnata dalla figura di Napolitano, che senza andar contro ad una virgola di delle sue prerogative presidenziali ha nominato Presidente del Consiglio, semplicemente, un uomo in grado di capire una crisi economica. Da quel momento tanto si è detto di Mario Monti e del suo governo, e le definizioni degli intellettuali della prima e dell’ultima ora si sono sprecate: il governo dei tecnocrati, l’uomo di Goldman Sachs, il potere delle banche, la democrazia declassata dai mercati, il burattino dell’Europa. Contro quelli che dovevano farci uscire da una situazione in cui saremmo marciti, noi e i nostri centocinquanta anni di incoerenze e di stasi, si sono abbattute la rabbia e la frustrazione dei tanti che non aspettavano altro che l’arrivo di un capro espiatorio. <br />
Ora, sia ben chiaro che il mio pensiero è assolutamente partigiano. Non pretendo che la mia verità sia considerata tale da tutti, ma allo stesso tempo rifiuto ogni logica facilmente relativista, per cui mi assumo la responsabilità di affermazioni che saranno volutamente estreme e provocatorie, non tanto per il gusto dell’accerchiamento o per masochismo, ma per un bisogno personalissimo di dire ciò che penso.<br />
Chiarito questo fatto torno al mio racconto di parte. Monti e il suo governo hanno provato a proporre una manovra che aveva degli aspetti rivoluzionari, perché per la prima volta imponeva una legge del buon senso, della serietà, e senza clamori denunciava la furbizia e l’egoismo su cui abbiamo basato decenni di storia e di politica come atteggiamenti non più accettabili. L’abolizione dei vitalizi per i parlamentari, le liberalizzazioni, la tassa “una tantum” sui patrimoni rientranti in Italia grazie al geniale condono fiscale dell’incredibile Berlusconi. Tutto questo era autenticamente rivoluzionario. Finalmente, mi dicevo guardando quella conferenza stampa già storica. Finalmente. E guardavo la faccia di Giulia dall’altro lato del tavolo della sua casa a Parigi dove in quel momento preparavamo un esame, illuminarsi e venire a vedere anche lei. Finalmente le cose stanno cambiando. Un passo verso la fine degli sprechi della politica, un passo verso la concorrenza in settori in cui l’oligopolio non ha alcun senso se non quello di proteggere microscopiche caste; finalmente la prima di quella che speravamo una serie di misure, sempre più nette verso chi ha creduto di potersi arricchire alle spalle dell’Italia, nascondendo il suo denaro miserabile al caldo di ignave banche svizzere o di chissà quale altro squallido paradiso fiscale.<br />
E ci guardavamo quasi commuovendoci insieme ad Elsa Fornero, quando ha ceduto al peso della sua responsabilità, quando proprio a lei è toccato dire che questo di certo non sarebbe bastato e che un sacrificio sarebbe stato chiesto a tutti, indistintamente; un sacrificio sulle proprie aspettative di vita, sui progetti candidi dell’ultima fase, fatti a pezzi o quasi dall’inevitabile taglio delle pensioni. Guardavo l’immagine di questa donna così rigida e razionale, così intelligente, mostrarsi finalmente nel suo lato umano. Ho stimato profondamente Elsa Fornero, come ministro e come donna. Ho sentito sul mio stomaco un po’ del peso che portava lei, come a volerle comunicare in qualche modo che la capivo, che mi rendevo conto del suo sforzo, della rabbia, della frustrazione per essersi dovuta in parte arrendere. E le ho creduto quando ha parlato del peso psicologico provato nell’affrontare certe scelte. Cosa deve essere sfavorire il lavoro e dare un colpo alla giustizia sociale, quando si è passata una vita a studiare il welfare, a stare dalla parte dei più fragili, non con le parole inutili dei soliti radical chic delle grandi occasioni, ma con la concentrazione costante ed alienante dello studio, con la volontà di tener fede alla missione del progresso sociale. Povera Fornero. Insultata, derisa, offesa, messa alla gogna ingiustamente nella sua umana sensibilità (che dall’impazzante ottica retrograda maschilista è ancora vista come femminile fragilità, quanta bassezza). Cosa avrà lei da piangere, si chiedevano i profeti del populismo d’accatto il giorno dopo, lei con i suoi uffici dorati, lei con i suoi figli con incarichi di prestigio, lei con le sue retribuzioni da professore universitario? Avrà da piangere, avrei voluto urlare io, perché lei ha lavorato per una vita per guadagnarsi gli uffici e le retribuzioni che ha meritato, ha studiato per una vita per diventare docente universitario ed invece di rinchiudersi in due stanze inutili ha avuto l’umiltà e il coraggio di accettare la sfida di avere a che fare con gente indisposta a qualsiasi tentativo di comprensione, impreparata e chiusa davanti alla richiesta necessaria di ogni sforzo condiviso. È andata a prendere a colpi di mannaia le pensioni quando avrebbe potuto starsene nelle sue aule, con i suoi studenti, a fare del facile sarcasmo sull’individuo X che avrebbe ricoperto al suo posto la carica di Ministro del Welfare. Non lo ha fatto, ha messo in gioco la sua professionalità e la sua persona, per diventare il re nudo di turno. <br />
E mentre Beppe Grillo, l’autonominatosi poeta vate dei nostri tempi, invocava il dialogo coi movimenti, il Popolo Viola dei vendicatori anonimi si faceva centro propulsore delle critiche e delle invettive di ogni genere e sull’anti-giornalismo figlio dell’anti politica del Fatto Quotidiano si sprecavano commenti ai limiti del terzomondismo. Il “decreto salva Italia” ci seppellirà tutti! Le pensioni non vanno ridotte! Monti difende i privilegi! Il governo avrebbe dovuto imporre l’ICI alla Chiesa, non a chi ha lavorato per una vita per mettersi da parte i soldi per farsi una casa! Critiche assolutamente condivisibili, dal momento in cui si prende un momento storico, lo si estrapola dal contesto in cui si trova, si dimentica l’evoluzione di un Paese e si finge di trovarsi all’anno zero della sua costituzione. Incoerenza, cecità ed opportunismo mi hanno lasciata per giorni senza parole. L’incoerenza è evidente nell’approccio al tema delle pensioni: fino a ieri le parole erano per i giovani senza futuro, per i giovani senza pensione, per i giovani precari per colpa dei padri a tempo indeterminato, per i giovani senza lavoro. Oggi, all’improvviso, diventiamo un popolo di sostenitori attenti della terza età. La cecità si è mostrata nella volontà ferrea, da parte della nouvelle vague dei censori, di non vedere quei barlumi di innovazione, sicuramente lenti, sicuramente non sufficienti, che un governo sul filo del rasoio e che vive dimenandosi tra i diktat dei partiti di ogni schieramento stava cercando di immettere nella politica, ma anche nella cultura italiana, nell’atteggiamento collettivo. Si è detto che tassare dell’1,5 percento i capitali rientrati grazie allo scudo fiscale del governo passato non sarebbe stato abbastanza. L’Italia dei Valori, altro prodotto della deformazione della politica messa in atto dalla Seconda Repubblica non vedeva l’ora di accusare il nuovo governo di essere il patrono di tutti gli evasori. Ci sarebbe stato bisogno di una tassa più punitiva. Si sarebbe potuto fare di più, Monti avrebbe potuto rischiare. Ma perché nessuno ha messo l’accento sul fatto che con quel piccolo 1,5 percento si sarebbero coperte le pensioni di chi campa con dai 400 ai 900 euro al mese? Mi rispondo da sola, dicendomi che la parte costruttiva della critica costringe a mettere in discussione innanzitutto se stessi, e che restare sulla distruzione è banalmente più facile, perciò l’atteggiamento distruttivo, immediato e rabbioso è il più diffuso. L’opportunismo si è palesato nei suoi aspetti sociologicamente più interessanti nel tirare in ballo all’improvviso un ever green dimenticato da tempo: la Chiesa. Passato Berlusconi serviva un altro mostro sacro, in tutti i sensi. Certo, c’è davvero poco di più evidente dell’assurdità dei rapporti che intratteniamo con la Chiesa cattolica, ma l’attuale governo doveva davvero farsi carico di un problema che dal 1861 non solo la politica non ha risolto, ma che addirittura non ha fatto altro che alimentare, impotente per calcoli elettorali di fronte alla religiosità e alla superstizione di un popolo di guelfi? Come avrebbe reagito un partito come l’UDC trovandosi a dover votare una norma che imponesse l’ICI sui beni della Chiesa? E il PDL? E l’ala dei cattolici del PD?<br />
Il fatto è che da Monti e dal suo governo si è voluta esigere la rivoluzione, ma una rivoluzione non di tutti, quindi non una grande riscossa civile, non lo scatto di reni di una Nazione cosciente di sé, dei suoi errori, delle sue lentezze, del suo malcostume diffuso che decide, tutta insieme, di schierarsi dalla parte dello sforzo comune e di perseguire un obiettivo. Da questo governo ognuno ha preteso la propria rivoluzione personale, ognuno ha voluto che si togliessero risorse a qualsiasi cosa non riguardasse la propria sopravvivenza personale, ognuno ha richiesto che a pagare fosse qualcun altro. In sostanza, ognuno ha puntato i piedi, fermo sulle sue posizioni, sull’attaccamento ai propri beni, e nessuno ha accettato alcun sacrificio perché ogni sacrificio era di tutti, di ciascuno. Ma i sacrifici giusti non esistono e allora tanto vale cercare di preservare se stessi ed i propri simili dalla mannaia collettiva. E che ognuno si rifugi nel suo gruppo, nel suo privato, nel suo egoismo. Che paghi sempre il mio prossimo: che non paghi nessuno. Che tutto cambi purché siano gli altri a sostenere il progresso. Che non cambi niente. Tanto meglio.<br />
E l’Italia continua a girare su se stessa, mentre il tempo passa e noi ci arrovelliamo sulla nostra inettitudine. Ora si sono ribellati i tassisti, una delle lobby più ingiustamente protette, e la loro micro casta resta fuori dalle liberalizzazioni. Un passo indietro. Domani si ribellano i farmacisti, quando si dice gente senza i soldi per campare. Ed altri passi indietro. Ieri si sono ribellati loro: loro che un paio di settimane fa, con la retorica d’accatto che li contraddistingue chiedevano a Monti la “riforma equa”, ognuno a suo modo. Loro che fecero del pietismo sui ricatti imposti dalla FIAT agli operai di Pomigliano (e che ora, per la cronaca, diventano regola); loro che volevano il dialogo con i giovani; loro che si arrampicavano sui tetti dei ricercatori; loro con Berlusconi o contro di lui; i parlamentari tutti uniti contro il ridimensionamento delle loro retribuzioni. Con un cavillo ridicolo, la lesione dell’ “autonomia del Parlamento”, hanno fatto escludere il tema dalla possibilità che sia affrontato da un decreto del governo. Morale, l’adeguamento alla media europea si farà, ma si farà con legge, quindi ci vorrà molto tempo e chissà che risultati ci saranno.<br />
Davanti a tutto questo io mi vergogno. Mi vergogno della Nazione che vorrei amare, della gente che non vede al di là del suo naso, mi vergogno dei farmacisti che hanno il coraggio di lamentarsi, mi vergogno di chi dovrebbe rappresentare i cittadini e che invece usa il suo ruolo, il suo scranno, il suo volto a proprio piacimento, dimostrandosi ancora parte di una casta, mi vergogno dei critici di professione, mi vergogno della Sinistra che mi dovrebbe rappresentare, mi vergogno dei Sindacati che giocano allo sciopero perdendo completamente di vista i problemi dei lavoratori che non rappresentano più, mi vergogno della maggioranza. <br />
Più passa il tempo più mi sembra che siamo davvero un paese di inadeguati, di individui piccoli, fermi su principi di comodo. E mi dispiace pensarla così, al punto che mi pare di essere caduta in una logica di massimalismo conservatore che accetta tutto come una forma di punizione per gli errori che abbiamo voluto accumulare impunemente per troppo tempo. Ma forse non è così e la mia è solo rabbia per chi si impegna, per chi lavora con passione, con dedizione, per chi fatica tutti i giorni per portare a casa un altro pezzo di dignità, per le persone oneste, serie, responsabili. E quanto c’è di più orrido in questa maledetta crisi è proprio il suo essersi abbattuta come sempre su tutti ed indistintamente, con una differenza sostanziale dovuta al fatto che i disonesti troveranno sempre qualche misero espediente per scamparla; i seri, quelli che pagano le tasse ed emettono scontrini, che non assumono lavoratori a nero, che non si assentano dal lavoro con la scusa del trisavolo morente, quelli che studiano invece di giocare alla rivoluzione, i non raccomandati, i non protetti si sobbarcheranno sulle spalle il peso degli oneri e delle microscopiche, provinciali delinquenze di tutti. <br />
Ma questa minoranza che è tale in quanto silente, questo gruppo di spaesati, di sinceri, di appassionati, dovrebbe smetterla di mischiarsi al coro delle voci indistinte e iniziare a sentire la necessità di mostrarsi nella sua diversità, e che lo faccia con coerenza stoica. Il tempo delle grandi ingiustizie finirà, se finirà, per nome dell’individualismo sacrosanto delle responsabilità individuali, delle menti che accettano il proprio ruolo, lo portano avanti seriamente e sono pronte a condividere lo sforzo degli altri. Finirà quando i farmacisti e i loro simili si faranno due domande su cosa debba provare un metalmeccanico davanti agli alti forni, un edile su un palazzo di sei piani. Finirà quando ognuno esigerà dall’altro onestà, e smetterà di adeguarsi a comportamenti sbagliati per paura di trovarsi solo contro mulini a vento di ogni tipo, di girare la testa dall’altra parte per non affrontare la moltitudine delle disonestà quotidiane. Finirà quando saremo pronti ad un riscatto comune, portato avanti da ciascuno nel limite delle proprie possibilità. Finirà quando saremo il popolo che adesso non siamo, un corpo di cittadini e non più folla forcaiola, ammasso di corpi, vuoti a perdere. </span><o:p></o:p></div><div class="MsoNormal"><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal"><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><i>"Fratello non temere<br />
che corro al mio dovere"</i></span></div><div class="MsoNormal"><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal"><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Ilaria</span></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-54916121203538551582011-11-19T14:17:00.000+01:002011-11-19T14:17:56.441+01:00Parigi, però che bohème confortevole...<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/--8xB-TSROjw/Tser3NouN1I/AAAAAAAAABA/IvoWwaUIDxk/s1600/KIF_3414.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://3.bp.blogspot.com/--8xB-TSROjw/Tser3NouN1I/AAAAAAAAABA/IvoWwaUIDxk/s320/KIF_3414.JPG" width="240" /></a></div><span class="Apple-style-span" style="color: #741b47; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Questo blog è un grande progetto mai portato a termine e che probabilmente neanche mai continuerò.<br />
In questo periodo vorrei scrivere:<br />
1-una lunga saga familiare<br />
2-della crisi, di come uscirne, della fine di un ventennio, dell'eterodossia economica<br />
3-una personalissima, assolutamente partigiana interpretazione del perché è difficile andarsene e facile restare, del perché quando si è perso e non lo si vuole ammettere ci si rifugia nel proprio cantuccio familial-provinciale e si smette di guardare fuori perché fuori è un mondo sterminato e selvaggio e non si è proprio in grado di affrontarlo.<br />
Caso vuole che io non possa fare niente di tutto questo perché il tempo come sempre corre e io continuo ad imbarcarmi in imprese folli. L'impresa folle del momento è il mio anno a SciencesPo, il cui vero nome dovrebbe essere: di come riusciremo a mettervi alla prova facendovi desiderare di mollare tutto per vedere chi riesce ad arrivare sano alla fine dell'anno. L'obiettivo per adesso è quindi questo, sconfiggere il mostro universitario ed arrivare sana a giugno, senza paranoie su inutili medie e robaccia simile. Per cui mi godo Parigi, il mio più che cosmopolita quartiere di Montmartre, le foglie che cadono, l'immensità degli spazi, il viavai di gente, i compagni di viaggio, il camembert, la bière blanche e tutto il resto. E negli intervalli di tempo mi concentro su dissertazioni al limite dell'impossibile e ricerche bibliografiche senza fine. Scopro così cose fino a ieri ignote e luoghi in cui probabilmente mai andrò, tipo il Tatarstan. E la chiudo. E' sabato e fuori c'è un sole ghiacciato, il cielo è di un azzurro immobile. E questo è uno splendido Autunno.<br />
Ilaria</span>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-21211615939703679762011-03-17T23:20:00.000+01:002011-03-17T23:20:49.809+01:00Unita troppo unita<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Due cose mi hanno commossa oggi. </span><br />
<object width="320" height="266" class="BLOGGER-youtube-video" classid="clsid:D27CDB6E-AE6D-11cf-96B8-444553540000" codebase="http://download.macromedia.com/pub/shockwave/cabs/flash/swflash.cab#version=6,0,40,0" data-thumbnail-src="http://2.gvt0.com/vi/06I5iqqN_0I/0.jpg"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/06I5iqqN_0I&fs=1&source=uds" /><param name="bgcolor" value="#FFFFFF" /><embed width="320" height="266" src="http://www.youtube.com/v/06I5iqqN_0I&fs=1&source=uds" type="application/x-shockwave-flash"></embed></object><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Gli alpini con i loro berretti e le loro piume, ultraottantenni arzilli e fieri, vecchi combattenti, reduci da quell'enorme campo di battaglia che è stato il Novecento, ora a distribuire caffè e biscotti per i temerari che si sono alzati alle sei di mattina per partecipare all'"alba della Nazione", in questa piccola, Forlì dal cuore tiepido. Uno di loro, in un bel discorso patriottico ma non banale, ha citato Oriana Fallaci. Nessuno me la tocchi questa Italia bistrattata, tuonava all'incirca così ne "La Rabbia e l'Orgoglio". Un colpo basso, va da sé, e ci scappa la lacrimuzza da parte mia, che rispondo alla retorica quando è sentita, quando è partecipata e si fa quindi sentimento sincero, come ad un comando morale, a un precetto religioso. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">La seconda scena, il pianto dei cantanti d'opera del coro del Nabucco diretto da Muti dopo il bis del Va' Pensiero, il 15 marzo scorso. L'ho appena visto in tv, che ogni tanto si rende utile, in una bella registrazione in un programma condotto dal mitico Gianni Minoli.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Perchè la "Patria", quando è "sì bella e perduta" allora è anche dimenticata. E quando si arriva a dimenticare è tardi per porre riparo alle nostre mancanze. Bisognava pensarci prima. E allora quando la cultura, la storia, la tradizione di un vecchio popolo è calpestata è proprio giusto che un Maestro d'Orchestra faccia politica attiva, a suo modo, restando nel suo ruolo. E' giusto che faccia politica e quindi storia. Ed è giusto che i cantanti d'opera piangano di commozione, forse di orgoglio o di gioia, la festa è anche la loro.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">La sensazione che ho avuto, o magari la speranza, in queste ore un po' a rincorrersi, rapide, piene di immagini e di memoria in cui foto di giovani partigiani e altrettanto giovani patrioti diventavano quasi interscambiabili, così simili tutti negli sguardi fieri e giovani, in cui si alternavano immagini di simboli ora un po' più comuni, è stata quindi quella di un grande risveglio collettivo, di una sorta di presa di coscienza generale di quanto stavamo lasciando scapparci dalle mani, di quanto avevamo rimosso o dimenticato, di tutta la storia che avevamo sprecato. E insieme a questo sentimento finale e irrimediabile, ho visto la voglia contemporanea di rimettersi all'opera per uscire dal baratro di presente in cui siamo finiti, spaesati come barchette microscopiche in balia di chissà quale tempesta. Ho visto l'alba, per quanto sia difficile, dentro l'imbrunire. Il Nabucco che ritorna al suo posto di grande opera lirica, libera e quindi di tutti, e non simbolo ingiustamente ridotto ad essere fazioso, non strumento di attacco politico, non prerogativa di una qualche prepotente minoranza è il simbolo di tutto questo. Come le bandiere tricolori sui balconi, anche, dei radical chic. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">L'idea è che oggi sia stato un po' l'inizio di una fase storica nuova, che mette insieme l'archeologia meticolosa del passato e la progettualità creativa per il futuro, pensiero e azione, alla Mazzini, per restare nel tema. L'idea è che la volontà di ricominciare daccapo, senza la finzione dell'essere tutti uguali, ma con la consapevolezza che delle radici comuni le abbiamo, si stia diffondendo. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Ora sta tutto nel domani, nella fine della festa e nell'inizio della vita, sta tutto o quasi alla politica, che dovrà confermare quanto promesso nelle belle parole di oggi, negli applausi scroscianti al discorso impeccabile di quel simbolo umano che è Napolitano, l'ultimo presidente partigiano. E sta a noi scendere dalle barricate, senza rinunciare a singole e indispensabili individualità, ma riconoscendo nell'altro l'interlocutore, il compagno, il nostro simile.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Per tutto il giorno ho pensato a quelli che avrei voluto avessero assistito a questo giorno. Come al solito, nella schiera dei fantasmi, i miei nonni sconosciuti in prima fila. L'operaio e il dottore. Chissà cosa avrebbero fatto oggi. Una bella bandiera sul balcone, credo, come me che un po' l'ho appesa, nella sua rusticità, per sentirmi parte della storia che anche quelle due vite hanno contribuito a fare, per ringraziarli, per ricordarli, con tutti gli altri e con quelli prima di loro. </span>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-16663780052650104722011-03-07T21:28:00.000+01:002011-03-07T21:28:45.614+01:00un punto<div><iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/THhw9jHc5Zs?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Cronache sentimentali. Niente più di un collage di titoli di Vasco Pratolini riesce a descrivere ciò che mi riguarda. Pochi libri come Cronache di poveri amanti e Diario sentimentale sono riusciti a commuovermi, ad impressionarmi e a farmi identificare nella fragilità umana dei personaggi, nella poesia delle parole accostate a formare la prosa. Ho scelto questo titolo per ricominciare da me, per mettermi alla prova, dopo due anni a far finta di non aver più niente da dire. Due anni a chiedermi se fossi ancora in grado di mettere due parole in riga. Due anni e forse più dall'ultima frase che ho scritto dove anche altri all'infuori di me potessero leggerla. Poi più niente. Soltanto, ad accompagnarmi, una timidezza improvvisa, un salto indietro alla mia infanzia, al lungo sonno dei miei primi anni, alla mia paura del giudizio degli altri, alla fuga in angoli sempre più nascosti e silenziosi e vuoti. Due anni sono passati fatti di saluti e di cambiamenti epocali, di facce sempre pronte a voltarsi, ma dall'altra parte, di amici andati tra pause di silenzi interminabili e vite diverse a rincorrersi da altre parti, in posti comodamente lontani abbastanza per avere una scusa per lasciarsi andare, per dirsi che non si ha più niente da dire o per non dire niente e basta, perché le cose cambiano, le persone anche. Due anni kantianamente morali, di esami, di voti, di numeri gelidi da accumulare per andare avanti, unico mezzo e unico obiettivo di giorni senza prospettive e senza senso, per mia colpa, per mia incapacità, per la mia paura di scontrarmi con la vita, con gli altri.</span></div><div><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Così ho aperto questo blog, un po' triste, un po' retorico per ora. Ma io so essere triste e so essere retorica, non ho affatto voglia di nascondermelo ancora per far finta di essere ciò che altri si aspettano, per modellarmi su misura per ottenere consensi, apprezzamenti inutili, sorrisi facili. Ho aperto questo blog per sapere che non sono invecchiata all'improvviso, che ho una vita da vivere, una vita da raccontarmi, da conservare in ogni attimo prezioso; per esistere senza sentirmi solo il progetto di ciò che sarò tra dieci anni, per non studiare e basta, per non smettere di avere voglia di essere altro. L'ho fatto per un sentimento atavico di narcisismo, per rileggermi e ridermi addosso o per sapere se ad altri interessa di ciò che passa in una vita di provincia, e se magari ci si rivedono, un poco; per sapere se un po' gli piace, se si nascondono quello che io mi dico, se sotto ogni sguardo si nasconda solo un "ipocrita lettore" o magari anche un "mio simile". </span></div><div><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Una mia cara amica mi ha fatto notare che entrambe sembriamo regredite allo stato della nostra depressione adolescenziale. Non le piace questa storia del blog, credo. Per lei deve essere un passo indietro. Per me, però, è il modo per ricominciare daccapo, per uscire dal silenzio profondo di questi ultimi anni a galleggiare aspettando non so bene cosa, a chiedermi quale fosse la cosa giusta da fare, a domandarmi quale fosse il comportamento adatto per piacere agli altri, e perchè la mia pesantezza, la mia timidezza non fossero capite, non fossero accettate o perchè io non fossi in grado di fare in modo che così fosse. E' il mio personale rimedio per tornare a dire a dire ciò che penso, a sentirmi viva, dopo troppo tempo passato nella macabra percezione del contrario.</span></div><div><br />
</div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6831423058006713242.post-12290542147345319482011-03-06T14:53:00.000+01:002011-03-06T14:53:46.765+01:00notizie dalla morte e dalla vita<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Niente mi perseguita come la paura della morte. </span><br />
<iframe allowfullscreen='allowfullscreen' webkitallowfullscreen='webkitallowfullscreen' mozallowfullscreen='mozallowfullscreen' width='320' height='266' src='https://www.youtube.com/embed/lU1fJmKMxso?feature=player_embedded' frameborder='0'></iframe><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">Avevo tre, quattro anni, nei primi ricordi che ho in mente segnati da quest'angoscia tremenda del vuoto, del nulla eterno, della fine di tutte le cose, dell'oblio. Mi svegliavo di notte sputando lacrime ansiose, interminabili. E mio padre, giovane allora, veniva a consolarmi, a dirmi di non preoccuparmi perchè "c'è sempre tanto tempo da vivere". Eppure quest'ansia non ha smesso di assillarmi. Ritorna in certe notti insonni, o prima di addormentarmi, come un pensiero fisso che fingo soltanto di accantonare nel giorno e che con il buio si ripresenta, ospite non certo benvenuto. Non credo di credere in un Dio. Questo non fa che peggiorare le cose. Allora mi metto a scrivere, conservo maniacalmente gli oggetti della mia vita. Metto da parte gli scontrini, i biglietti dei concerti e del cinema, recupero vecchie foto di famiglia, ho ancora da qualche parte le chiavi della vespa che qualcuno ha rubato, scrivo sulle prime pagine dei libri il mese e l'anno in cui li ho letti, come ha sempre fatto mia madre. Riordino la memoria, come se l'archeologia del passato servisse a non pensare a quel futuro inevitabile, al fatalismo misero dell'esistenza umana, alla sua precarietà. Ma al futuro ci penso e ogni volta lo immagino come ciò che desidero, come una casa accogliente, chiassosa nelle cene con vecchi amici, con i bicchieri sporchi di vino e l'aria densa del fumo delle nostre sigarette, con un disco a suonare piano mentre lavo i piatti aspettando la mattina dopo e lì una redazione affollata, caotica, e articoli da scrivere e vite da raccontare e per farlo viaggi, inchieste e la scoperta del mondo, l'andare per avere un posto in cui tornare e qualcuno ad aspettarmi, sulla porta.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span><br />
<div style="text-align: right;"><span class="Apple-style-span" style="color: #4c1130; font-family: Georgia, 'Times New Roman', serif;">A G.</span></div>IlariaDhttp://www.blogger.com/profile/07292529079813055939noreply@blogger.com0