giovedì 8 marzo 2012

“...Sognano di navigare ma non è vero”





Un paio di settimane fa seguivo una lezione di Labor Economics in cui si parlava di istruzione e lavoro. A cosa serve andarsene in giro per il mondo, cercare università prestigiose, accumulare titoli di studio, (al di là di una eventuale realizzazione personale) se non per avere maggiori possibilità di trovare un lavoro e minori possibilità di perderlo in modo ingiustificato? La formazione è un modo per diventare lavoratori tutelati. Certo che questo ragionamento sembra un po’ irrealistico se ci si guarda intorno, però è così e ricerche portate avanti dall’OCSE confermano questo dato. Il mio professore ci ha quindi sottoposto una serie di grafici in cui si analizzava proprio la relazione tra grado di istruzione e possibilità di perdere ingiustificatamente il proprio posto di lavoro.
Il grafico più generale metteva in luce una situazione rosea, che suffragava l’ipotesi dell’istruzione come segnale di produttività e come tutela per la propria condizione di lavoratori. Peccato che le statistiche generali non dicano molto, non considerando per definizione le differenze, spesso sostanziali, tra gli individui del gruppo preso in analisi. E così scendiamo nel dettaglio, guardiamo le statistiche per gli uomini e per le donne separatamente e prendiamo in considerazione, nei due campioni, gli individui in possesso di un titolo di laurea magistrale. La realtà ci si palesa come una brutta sorpresa davanti ai nostri occhi di studenti talmente presi dall’ideale dei modelli da perdere del tutto il contatto con la vita vera. Livelli medio alti di istruzione garantiscono, nel mondo del lavoro, una tutela per i maschi. Al contrario, avere o meno una laurea magistrale offre una minima garanzia di stabilità lavorativa per le donne. In pratica, se sei femmina, al di là della tua produttività e dell’efficacia dei tuoi studi, sei molto più esposta al rischio di essere licenziata senza ragione apparente. Bello. Quel grafico mi sembra la scoperta dell’ovvio, eppure il  mio professore sembra sorpreso. Secondo me finge perché io quella che lui chiama “inspiegabilità del dato” non la vedo proprio. Io credo che lui la risposta l’abbia ben chiara. È uno in gamba. Chiede però a noi di intervenire, di spiegare secondo noi perché c’è uno scarto così grande tra uomini e donne.
Una ragazza americana interviene con una motivazione che suonava così: gli uomini lavorano in più ambiti delle donne quindi magari acquisiscono più competenze. Cosa? Io stavo giusto alzando la mano, ma ascolto la risposta e sento che mi sto incazzando, quindi me ne sto zitta. Mi dico che non mi va di passare per la femminista di turno, chissà perché poi. Ad ogni modo io ero e rimango convinta che le donne siano più esposte a licenziamenti improvvisi e immotivati perché non danno per definizione le garanzie di continuità  sul posto di lavoro offerte invece dagli uomini e perché, soprattutto, necessitano di garanzie che i datori di lavoro non si vogliono proprio prendere il compito di offrire. Quante delle donne considerate per quell’indagine sono state licenziate all’improvviso perché aspettavano dei figli e non avevano diritto a nessun periodo di maternità? Se sei incinta poco cambia che tu abbia un diploma di liceo, la terza media o un dottorato; ci sarà comunque un periodo, per quanto breve se oltre ad essere femmina sei pure stakanovista, in cui non potrai lavorare, quindi per la tua impresa sei un costo, un peso. Forse il tuo grado di istruzione potrà essere una garanzia solo se sarai talmente produttiva da azzerare praticamente, con il tuo stesso lavoro, il costo del tuo periodo di maternità.  Purtroppo non ho prove per supportare questa mia idea, ma credo di non aver sbagliato. Di certo ci saranno anche altre motivazioni che la parzialità del mio punto di vista per ora mi impedisce di considerare, ma questa per me rimane fondamentale.
D’altra parte non mi sembra di aver detto una grande verità altrimenti non svelata. Pratiche come quella delle dimissioni in bianco sono note a tutti come è noto che le donne hanno in media ancor meno probabilità degli uomini di ottenere lavori a tempo indeterminato, come è ancora noto che gli stipendi delle donne rimangono più bassi di quelli dei loro colleghi maschi. La RATP, azienda che gestisce i trasporti urbano di Parigi, ha lanciato una campagna pubblicitaria con manifesti che invadono autobus e stazioni delle metro in favore della parità dei salari tra maschi e femmine. È di grande efficacia, però mi viene da chiedermi se in casa loro questa parità esista.
La sostanza è che l’esistenza di una donna è sempre un’esistenza sdoppiata: da un lato le aspirazioni, il lavoro, tutte quelle attività che derivano dal fatto di sentirsi cittadina e basta, essere umano e basta; dall’altra i ruoli che la cultura e la società hanno imposto nel corso della storia, tanto da essere percepiti come “naturali”. E si tratta di uno sdoppiamento che si vive costantemente e che deriva dal fatto che il ruolo della donna è sempre stato visto in opposizione a quello dell’uomo e, cosa fondamentale, come un derivato di quest’ultimo. La donna è immanenza, l’uomo è trascendenza. Se la donna cerca di uscire da questa condizione diventa “uomo”. Una volta mi è capitato di sentirmi fare un complimento, o almeno la persona con cui parlavo doveva pensarla così. Mi venne detto che io pensavo come un uomo, ovvero da un punto di vista neutrale oltre che globale. Non reagii però la situazione mi sembrava paradossale. Ma quindi pensare come una donna significa pensare in modo parziale? E l’uomo ha invece il controllo dell’assoluto? Evidentemente si, secondo lui. In fondo il pensiero maschile si è affermato per millenni in una condizione di totale monopolio, basata per come la vedo io su una predominanza fisica ancestrale del maschio e sulla capacità di generare la vita della femmina. E i ruoli si sono semplicemente calcificati nei secoli. L’uomo mette la donna nella condizione di fare i figli, la donna li mette al mondo, li accudisce e li cura e fine dei suoi compiti. E su questo dato di fatto che è vero da quando esiste il mondo si è basata la nostra storia. Non starò qui a lamentarmi del fatto che nella democratica Atene le donne la cittadinanza non l’avevano. E però mi delude Rousseau, mi delude la sua democrazia diretta che per esistere necessita di cittadini che possano non dedicarsi ad altro che alla politica, e perciò anche di gente fuori dal contratto e quindi priva di diritti che non faccia che lavorare (gli schiavi) o che badare alla dimensione privata (le donne). Mi delude perché mi porta a pensare allo scarto tra il progresso della condizione umana e il progresso della condizione maschile. Di nessun passo avanti per l’umanità si può parlare se include solamente una parte di quell’umanità. La storia delle donne, rispetto a quella degli uomini, è iniziata con millenni di scarto.
Il maschilismo non è l’opposto del femminismo. Il primo è, oltre  alla conservazione del mondo così come esiste, la negazione di problemi altrettanto reali; il secondo è stato ed è una grande rivoluzione del pensiero, con la finalità alta di riscrivere la storia e progettare il futuro da un punto di vista nuovo, prima inesplorato. Essere femministe non significa, come a volte sostengono spaventati uomini, anche molto intelligenti, con cui mi trovo a discutere, presupporre una superiorità della donna sull’uomo e quindi teorizzare la necessità di togliere gli uomini dalle posizioni di potere per sostituirli con le donne. Il femminismo non è la lotta accanita delle donne contro gli uomini, ma lo studio autocosciente delle cause che hanno portato le prime in una condizione di subordinazione e i secondi in uno stato di superiorità. Il femminismo è un metodo di indagine, è una prospettiva sulla storia ed è un sistema di pensiero, per niente univoco e animato da una grande, vivacissima dialettica. E se si pensa che un pensiero proto-femminista ha iniziato a svilupparsi con l’Illuminismo e che il femminismo si è affermato soprattutto nel Novecento non si può che guardare con ammirazione a quanto, in così poco tempo, le donne hanno fatto e pensato. 
Quanto al problema del potere, poi, ci sarebbe un’altra cosa da specificare. Anche il potere è infatti un concetto che si è sviluppato sulla base della psicologia maschile, come controllo e come coercizione. Il problema non è allora che le donne abbiano la possibilità di occupare posti di potere, diventando quelle che Vecchioni tanto facilmente chiamerebbe le stronze “come un uomo”, ma ridefinire il potere stesso, ad esempio, come “responsabilità”. Le donne non sono a prescindere più buone, calme, docili e remissive degli uomini. Queste caratteristiche non sono dati naturali, ma dati sociali plasmati dalla cultura, dall’educazione e dai modelli che storicamente si sono imposti. Le donne non sono entità venerabili, sono esseri in carne ed ossa e come tali hanno pregi e difetti, di differenziano fra loro, fanno le scelte di vita più disparate. In Relazioni Internazionali, ad esempio, ci si è interrogati su una questione: le donne sono più pacifiche degli uomini? Illustrissimi teorici liberali sono arrivati a sostenere che le donne non occupano posizioni di potere in ambito internazionale perché sono troppo riflessive rispetto ad un contesto che è al contrario selvaggio e violento. È la scusa patetica del “ti lascio perché non ti merito…”. Tante ricerche hanno invece messo in luce non solo l’assurdità di una tale risposta, ma l’insensatezza della domanda. Se le donne come alti dirigenti siano più o meno violente degli uomini  non ci è dato sapere. I casi di Capi di Stato o di Governo donne che hanno affrontato crisi internazionali anche violente sono infatti meno di dieci, un numero un po’ misero per farci un’analisi statistica. Il problema che bisognerebbe considerare è un altro e cioè, in che modo il livello di parità di genere in uno Stato influenza anche le sue scelte in ambito internazionale? Altre ricerche confermano che gli Stati più equi sono anche i più pacifisti. E questo è quanto. Nel senso che il problema delle donne non è proprio quello di mettersi a giocare a fare gli uomini, ma quello di progredire come soggetti di pari grado rispetto ai maschi. Il progresso delle donne è il progresso della società; quando i gruppi che chiamiamo minoranze solo perché sono subordinati ad un gruppo dominante si emancipano, ecco che si verifica il progresso, quello vero, quello di tutti.
Ora il problema è quello dell’azione e riguarda una pluralità di campi: politico, morale, economico. Le donne dovrebbero chiedersi un enorme “Che fare?”
Le femministe degli anni settanta, che pure tutti indistintamente dovremmo ringraziare, hanno sbagliato, per eccesso di ottimismo, nel considerare le donne come una collettività omogenea e desiderosa di ottenere gli stessi obiettivi perché conscia della propria condizione assoggettata. La storia ha dimostrato che non è così. Per quanto io resti convinta del fatto che essere femministe significhi solo avere del buon senso e una discreta capacità di rendersi conto di ciò che è reale, è ovvio che questa rimane una mia opinione personale ed è anche ovvio che non è universalmente accettata. Le battaglie di “Se Non Ora Quando?” dell’anno scorso in Italia, ad esempio, hanno dimostrato quanto sia difficile portare avanti un discorso femminista in una società in cui il relativismo ha portato all’obbligo di accettare acriticamente qualsiasi atteggiamento se non si vuole correre il rischio di essere tacciati di moralismo. La critica di SNOQ era ad un sistema di potere che si basava non solo su una conclamata predominanza del genere maschile, ma cosa ancor più grave, sull’utilizzo delle donne solo come oggetto dei potenti, scambiate come merce per denaro ad uso e consumo di determinati detentori di poltrone. Il movimento fu criticato a sua volta; si parlò da più parti di puritanesimo, di moralismo, di puzza sotto il naso e di atteggiamento radical-chic di sinistra. È una critica facile e comodissima, basata sul fatto che le ragazze che si erano prestate al gioco del potere erano tutte perfettamente consapevoli e complici e poiché di libera scelta si trattava, allora non era criticabile. Come si risponde all’ovvietà? Uscendo dal relativismo e avendo il coraggio di vedere le cose da un modo di pensare opposto, che metta alle basi il rispetto della dignità umana. La dignità delle donne non è calpestata dal fatto che alcune, forse convinte di essere più furbe, decidano di fare di sé l’oggetto della propria effimera fortuna. Non provo alcuna compassione per chi fa queste scelte, ma nemmeno mi viene da esprimere un giudizio. Viaggiamo su binari diversi. La dignità delle donne è calpestata se il loro ruolo è ridotto a questo e a pochi altri, e se questi vengono presi ad unici modelli di vita possibili; se sono considerate sempre al secondo posto; se quando sono al primo si dice di loro che sono talmente in gamba da sembrare uomini, come se non fosse stata proprio la loro identità di donne a portarle a quelle posizioni; se per raggiungere quel primo posto sono costrette a rinunciare ad una vita privata; se per avere una vita privata devono mettere da parte ogni aspirazione, ogni volontà.
Dalla parità siamo lontani, e non serve un occhio troppo attento per capirlo. I giornali italiani hanno parlato per quasi una settimana di un tatuaggio a forma di farfalla sull’inguine di una donna di spettacolo, questo fatto basta a dare conto dello squallore in cui sguazziamo. Perciò io non credo di avere grandi cose da festeggiare oggi, ma da riflettere c’è tanto. E da riflettere hanno tanto gli uomini.
Se c’è una cosa che il femminismo può insegnare è proprio la capacità di fare dell’autocoscienza uno stile di vita necessario. Certo che voi non avete mai dovuto mettere in discussione voi stessi, chi crede di aver vinto può godere del trionfo, per quanto in modo subconscio, non deve chiedersi perché ha vinto. La storia l’avete cucita e scucita, il pensiero è fino all’Ottocento esclusivamente maschile; il punto di vista dominante è sempre stato il vostro e questo ha fatto sì che diventasse l’unico, oltre che quello Universale, quello valido per tutti (avete mai pensato all’assurdità dell’espressione “Suffragio universale maschile?”).
Perciò non regalateci mimose, non santificate le vostre madri che loro si santificano già da sole. Chiedetevi però quante volte avete detto o pensato di una donna che era una “puttana”, quante volte discutendo con una vostra amica, una conoscente o altro avete creduto di essere portatori di un’idea a prescindere più valida; quante altre volte avete giudicato una donna, o cambiato parere su di lei, perché era “la donna di” un vostro amico, e vi siete invece accaniti contro altre volontariamente non protette da nessuno e capaci di esprimersi in modo del tutto autonomo; quante volte avete dato ad una donna dell’isterica, pensato di una vostra insegnante che era severa perché “è frustrata, non scopa”; pensato che se una ragazza è stata violentata forse se l’era cercata.
Quanti altri errori commessi quotidianamente, senza pensarci in molti casi, ma che se ripetuti in eterno diventano stereotipi che vengono spacciati per verità e che per questo arrivano a giustificare l’inaccettabile. Prendetevelo anche voi il diritto e il dovere di mettervi in discussione, noi ce lo siamo guadagnato al prezzo di grandi sofferenze. Una magra consolazione.
Buon Otto Marzo insomma, nonostante tutto.

Ilaria

p.s. Cari Compagni e Care Compagne di Ateneinrivolta, non capisco il senso di usare l’asterisco al posto delle vocali finali degli aggettivi e dei nomi che usate nei vostri comunicati. Car* compagn* non esiste. Il sesso neutro non esiste, ci sono le femmine e ci sono i maschi. A dover esistere sarebbe il Genere neutro, ma non sarà l’essere interpellate per prime o per seconde a farci fare un’idea della nostra condizione, non sarà l’annullamento delle diversità in un miscuglio indistinto ad affermare la parità; a farlo sarà la valorizzazione delle differenze. Ma questo è solo ciò che penso io.