lunedì 7 maggio 2012

Aux armes, citoyens...

Ieri sera Place de la Bastille era un oceano di teste e di bandiere. L'entusiasmo non riassume i sentimenti che animavano quello spazio enorme, quelle persone vocianti, quel miscuglio incredibile e festoso di generazioni: vecchi e giovani uniti, prima di tutto, da un sano ed invidiabile fervore politico e repubblicano. François Hollande, come è noto, è il nuovo Presidente di questa Francia che ha tanti motivi per essere orgogliosa di sé. E in quella piazza si respirava l'aria della storia. La Quinta Repubblica non è più così giovane, dal 1958 sono passati cinquantadue anni e le presidenze di destra sono state interrotte solo dal periodo Mitterand, iniziato nell'81 e finito nel '96. 
Il bisogno del cambiamento in una repubblica matura significa bisogno di alternanza, e deriva da quella coscienza politica che evita la formazione di incrostati,  corrotti sistemi di potere. E la coscienza politica dei cittadini va di pari passo con la serietà delle sue istituzioni, con la credibilità dei partiti e della classe politica. Sotto questi punti di vista la Francia non ha niente da rimproverarsi. 
Quando sono arrivata a settembre tutto doveva ancora iniziare, le primarie socialiste per la scelta del candidato presidente non c'erano ancora state ed un semestre sarebbe passato prima che Sarkozy  ufficializzasse la sua ricandidatura all'Eliseo, Marine Le Pen era cosa nota, ignoravo l'esistenza di Jean Luc Mélenchon. Seguivo i dibattiti politici sui quotidiani e su internet e mi sembrava che la politica francese fosse noiosa e morta, priva di passioni e ripiegata su poche questioni marginali. Una politica burocratica, degli amministratori grigi sfornati dalle Grandes Ecoles. 

Mi sbagliavo, e l'ho capito col tempo, per superficialità campanilistica e per la distorsione causata dall'aver vissuto in un periodo storico mediocre, vergognoso, la politica italiana, da sempre immagine di un eccezionalismo eterno, di una sorta di perenne stato di urgenza e di necessità; una politica aggressiva, movimentata, instabile. Tutto questo per me era sinonimo di interesse e mi illudevo che l'eterno caos della nostra penisola potesse essere prima o poi foriero di una qualche forma di seria di evoluzione e di cambiamento. Mi ostinavo, non avendo sperimentato altro, a non voler vedere il Gattopardo dietro repubbliche che da noi cambiano il nome ma non la forma, non la sostanza dei loro giochi di potere.

In questi mesi di campagna elettorale la politica francese mi ha davvero sconvolta. La sua bellezza sta nella sua onestà, nella chiarezza degli schieramenti politici, nelle Sinistre e nelle Destre capaci di riconoscersi in valori distinguibili; la sua grandezza sta nel rispetto che sottende il dibattito così che questo mai si trasforma in rissa sterile, animalesca, anche nelle prese di posizione più dure, anche nei discorsi più appassionati, nelle manifestazioni più indignate. La Repubblica, qui, è in grado di preservare se stessa dalle degenerazioni più estreme, dai pericoli derivanti soprattutto dai successi di un certo massimalismo di destra, incarnato dal Front National. I cittadini sono persone pensanti, critiche e rispettose, perfettamente in grado di distinguere i discorsi politici dal luogo comune. Dovrebbe far discutere  il fatto che il partito di Le Pen abbia ottenuto i risultati più bassi nelle città più grandi e a maggiore densità di immigrazione. Ma il discorso, ora, non è questo.

Ieri si festeggiava la vittoria di una sinistra laica, sociale ed europeista. E' stata la vittoria della normalità un pò pedante di Hollande, dei suoi continui richiami al bisogno di ritrovare un'unità e di condivisione, di coesione sociale e di rispetto della diversità, ma è stata anche una vittoria del Front de Gauche, una sinistra più radicale, critica, ma con la fortuna di aver individuato un leader come Mélenchon, capace di una  coerenza e lungimiranza tali da non poter che suscitare un immediato rispetto. 
La colonna della Bastiglia, ripresa già il Primo Maggio come secoli fa era stata conquistata la vecchia prigione della dissidenza all'Ancient Régime, ieri era invasa ed il simbolismo del gesto era emozionante. Devo aver provato una certa invidia a non poter partecipare del tutto della festa. E ogni sguardo a ciascuna di quelle migliaia di facce fiere, consapevoli, unite, causava in me come un magone per non aver mai potuto festeggiare niente, per non essere mai stata soddisfatta, orgogliosa del mio Stato, fiduciosa nei confronti della mia classe dirigente. Un'Italia persa immaginavo a sud, dove non è possibile riconoscersi in un progetto politico, ma dove anche sbiadisce e si corrode, per disillusione precoce, qualsiasi trasporto civile ed emotivo che forse è anche "un sogno, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita". 

E mentre io mi interrogavo su questo e l'altro mondo, mentre un signore mi regalava una bandiera del Front de Gauche che io cercavo di rifiutare ma che alla fine, felice, ho accettato, dall'altra parte della Senna, alla Mutualité, non c'era niente da festeggiare e Nicolas Sarkozy teneva il discorso della disfatta. L'ho ascoltato oggi, trovandolo di un'alta statura politica e di grande dignità. Sarkozy ha indossato il vestito migliore e a testa alta ha saputo assumersi  l'intera responsabilità di una sconfitta che non è stata un disastro, riconoscendo ad Hollande i suoi meriti, incitando a non perdere la fiducia nelle istituzioni, a continuare a credere nella Francia, nelle sue possibilità, a non cedere ad un controproducente odio di partito. E' stato un discorso patriottico e commovente sulla frase finale "vous etes la France éternelle", come commovente era stato il boato della Bastille al "nous ne sommes pas un Etat quelconque, nous sommes la France!" di Hollande. 
A Parigi vincenti e perdenti cantavano La Marseillaise. Mi domando quando troveremo il coraggio noi, laggiù, di prendere la nostra storia di petto, di chiarirla e di smentirne le revisioni, quando troveremo dei cardini in cui riconoscerci tutti, quando saremo anche noi uno Stato normale, quanti secoli ci vorranno per fare gli Italiani. Rifletto perché qui si capisce cosa sia una Nazione, si percepisce l'imponenza e la sacralità di uno Stato degno di dichiararsi tale e talmente orgoglioso da aver messo in piedi, per celebrarsi in eterno, l'unica chiesa laica del mondo, quel Pantheon dedicato "aux grands hommes la Patrie reconnaissante".
 E' per questa condivisione di valori di base, questa immortale religione repubblicana, che lo scontro mai si trasforma in guerra, che la democrazia non è indebolita né banalizzata da un pluralismo che pure esiste e non viene ucciso nemmeno da un sistema elettorale severo come il maggioritario a doppio turno. 

Una metà dei francesi francesi può festeggiare il progresso, altri possono piangere la sconfitta. Ma questo, qui, non significa  disperarsi; la delusione non diventa desolazione, quell'abbandonarsi al destino che noi italiani conosciamo bene, quando al di là degli uomini resta forte la fiducia nelle istituzioni che rappresentano.
La Repubblica, come una madre, veglia sulla storia; le sue parole le danno un fine, la riempiono di dignità. Chi non sarebbe fiero di un Paese così.



Ilaria


p.s. ci sarebbero da commentare le reazioni allucinanti della classe politica italiana ad i primi risultati delle amministrative. Non ho tempo, quindi mi limiterò  ad un riassunto che renda conto della mia incredulità e perplessità.
Il PDL, ad esempio, sta morendo, i suoi quadri dovrebbero dimettersi in massa; nessuno si assume la responsabilità di una disfatta evidente. Berlusconi, opportuno come sempre, è a Mosca a festeggiare l'ennesimo insediamento di Putin, non una parola di indignazione da parte di alcuno. 
Il PD sopravvive per inerzia e per non aver mai governato, ma a Palermo è stato battuto due volte: la prima durante le primarie, la seconda adesso; non capisco che conclusioni ne abbia tratto. 
Il centro non esiste, ed ancora non ho ascoltato un'autoanalisi.
Grillo avanza e si fa vivo in me un moto di repulsione. 
Si sprecano analogie infondate con la Grecia e con la Francia, come se fosse possibile comparare elezioni amministrative ad altre politiche e presidenziali. In Italia il dibattito è tutto un dissuadere l'opinione pubblica dai temi che bruciano. E' tutto un sopravvivere di una classe dirigente inadatta, culturalmente fragile, politicamente insignificante, moralmente ai limiti del raccapricciante.