sabato 5 ottobre 2013

Alla tua malinconia sghemba

Andarsene dove, con cinque euro di benzina?

Gli irrequieti si pongono queste domande, se le pongono gli idealisti, i provinciali. Loro, poi, si chiedono sempre dove andare per trovare il mondo, abituati –e costretti- come sono, a confrontarsi con una realtà piccola piccola; provinciali che conoscono come le proprie scarpe i muri vecchi di città invisibili, le scritte con le bombolette su casermoni logori, la solita birra del bar vicino casa, i cani randagi a cui hanno dato un nome…

E forse è l’abitudine a quei posti risaputi e usuali, o forse è quella sensibilità tutta umana che chiamiamo curiosità,  a spingerli a cercare altro, un luogo che risponda alle loro domande, o dove almeno qualcuno sappia fare il caffè.

Questo cerca Matteo, un posto altro dove non ci siano baristi che hanno fatto corsi di barman ma che poi ti fanno una chiavica di caffè che dovresti solo sbatterglielo in faccia; e in questo desiderio tanto terreno c’è una voglia di volare ad alta quota, di andarsene a vedere le cose da lontano così che appaiano più chiare o pacificate, chissà. Ed Emanuele, tramite Matteo e con lui, va a cercare quella medesima libertà.
Così, la scoperta triste del progetto dell’Alfa di fabbricare un SUV diventa una scusa decente per mettersi in macchina e andare… Dove? Altrove… 

Ed eccoli là, quattro amici che si sanno a memoria, tutti e quattro e ciascuno a suo modo di una malinconia sghemba, in una macchina con cinque euro di benzina, Paolo Conte come necessario sottofondo.

Ma dove ve ne andate se dietro di voi ci sono le montagne e gli alberi morti per vecchi roghi estivi e il neon della statua del Cristo Redentore? Dove ve ne andate se davanti a voi c’è il mare, quello in cui si è perso il vostro sguardo, il mare grande da scrutare, mare lontano che piace immaginare libertà e che invece è limite invalicabile, compagno e confine, che spalanca la vista e impone orizzonti finiti?

A questo non pensano mentre vanno, mentre scivola come una ninnananna nelle orecchie Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna… Vanno e basta. Vanno a Sperlonga, sulla spiaggia, a Itri, a domandarsi in silenzio chi sono, a lanciare i sassi nel mare, a saltare dai gradini e a dormicchiare sulle panchine sotto un tramonto rosa.  Soprattutto, con romantica superbia, vanno a chiedere il cielo di togliersi il cappello davanti alle loro gioiose ambizioni, davanti alla loro profondità.

E mentre il motore gracchia, mai nominato apertamente è il senso del viaggio, il dilemma di sempre, ad aleggiare sullo sfondo. Perché scappare, e da cosa, se poi in fondo il caffè non era male, se poi c’è una bellezza immensa, anche, nelle cose piccole? Che senso ha cercare spasmodicamente la grandezza, se poi la grandezza sta nel cogliere la meraviglia nei fatti che ci capitano, nelle persone che ci circondano, nei rapporti sinceri, negli sguardi complici, nei desideri comuni? E se tutto il meglio fosse già qui?

Quella dei ragazzi nella macchina col serbatoio in riserva non è arrendevolezza ad un presente dato, ad un futuro scontato. Il loro non è provincialismo. Il loro sguardo è quello vispo di chi ha guardato il mondo, si è sforzato di capirlo e forse ne ha colto l’inganno e a quell’inganno si rifiuta di soggiogarsi e così si ostina a vivere per com’è, a schiena dritta e come desidera, senza imporsi altro al di là di un buon caffè.

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Ilaria

Grazie a te ho una barca da scrivere
ho un treno da perdere

p.s. Lettori, miei cari, cliccate su questo link( La Comédie d'un Jour, vincitore del  Corto Moak 2013 )per guardare un cortometraggio che dura quanto due canzoni di Guccini, o quattro canzoni di qualunque autore normale. Sono tredici minuti di cui non vi pentirete, se vi andrà. 

mercoledì 2 ottobre 2013

Scissione all'interno del PDS: la poesia del lapsus della giornalista di La 7

Il PDL muore, il PDL si sfalda, si lacera. Si esaurisce la spinta propulsiva del PDL. Scissione dei moderati, separatismi dei ciellini, divisionismi di ex craxiani. Nascono nuovi gruppi parlamentari, o forse no, o si. La fiducia non si vota, ma alcuni lo faranno (maledette colombe), allora dai ripensiamoci tutti, si dai votiamola. Berlusconi vota la fiducia. Il dramma umano di Bondi è evidente, uno stato di profondo nichilismo lo attanaglia: che fare? Che pensare? Il tabù Berlusconi ha ucciso il totem di se stesso. Si direbbe che al posto dell’atteso parricidio un autentico suicidio politico si sia verificato. Un gran trambusto di servizi ed inviati specialissimi vessati dai rispettivi direttori dei TG. Domanda Mentana, davvero emotivamente coinvolto: “Quali sono gli ultimi boatos da Palazzo Madama?”. In giornate così, quando la politica diventa pettegolezzo, vociare indistinto, anche il neologismo è arte.

 Berlusconi si è arreso ad Alfano, il vecchio ha ceduto il passo al giovane e volendo si potrebbero mettere in fila chilometri di metafore imbarazzanti sui delfini e gli adolescenti con le chiavi di casa e altre infinite banalità. La linea politica degli strenui difensori del nostro anziano eroe ha perso; la battaglia corpo a corpo delle pitonesse e dei falchi contro i mulini a vento degli ostili al capo sembra essersi esaurita in un niente, o meglio in poche frasi del capo stesso, che in due minuti scarsi, come a volersi togliere il prima possibile dall’impaccio, dal basso del suo scranno si rimangia tutti gli attacchi, gli sproloqui e le manifestazioni un po’ paranoiche dei giorni scorsi e si decide a sostenere Letta. Si sarà accorto che la sua vera fine politica sarebbe stata causata da una odierna sconfitta numerica. Meglio evitare uno scontro frontale se ci si riconosce più deboli del nemico interno, meglio rientrare nei ranghi e aspettare.

Tutto questo non è poi tanto interessante.

Però si ascolta un discorso di Letta che ammicca alla destra, e pure al suo vecchio leader azzoppato, che quasi quasi gli diventa complice, sottintende vicinanza, che di irricevibile e non-votabile dal beneamato Caimano non ha proprio niente. Anzi, si ascolta un discorso retorico e farcito di una morale fuori luogo, di nomi fuori luogo, altisonanti, troppo, rispetto al momento di oggi, come a volerne sopravvalutare la gravità. Sarà per la convinzione di essere investito da un compito tanto sovrumano, che Letta presenta se stesso come l’uomo in grado di restituire all’Italia una grandezza che, pur essendo stata la nostra storica ossessione, non abbiamo mai avuto. E per questa convinzione Letta si sente unico responsabile, unico salvatore ed ha acquisito una fiducia nella propria capacità politica che fino a cinque mesi fa sembrava impensabile. Sarà per questo motivo che rivendica con fierezza le borse di studio per i conservatori e tace candidamente sugli inutili battibecchi sull’IMU, sul macroscopico problema dell’aumento dell’IVA, sulla triste latitanza di un vero dibattito parlamentare sulla legge elettorale...

E così traspare finalmente in modo netto, dalle parole di Letta, dalle sue incrollabili certezze, che il governo che era stato presentato qualche mese fa come temporanea soluzione ad un irrisolvibile e contingente problema di ingovernabilità, oggi si pone come governo autenticamente politico, del tutto legittimato a governare per un orizzonte temporale ben più vasto di quello inizialmente indicato. Questo è un fatto interessante. Anche vagamente inquietante, in realtà.

La mia sensazione è che oggi, piuttosto che perdere tempo a parlare della sconfitta berlusconiana, che poi mi pare del tutto marginale, si dovrebbe discutere di quanto nel giro di poco tempo questo governo abbia aumentato nei fatti i suoi compiti, di come questa evoluzione sia stata accompagnata da un progressivo addormentamento dell’opinione pubblica, di come la pacificazione tanto decantata sia in realtà una spaventosa assenza di vivacità intellettuale da parte di una cittadinanza sempre più passiva, di come siamo arrivati a dare per scontato che esistano comitati di saggi a proporre pacchetti di riforme che solo in apparenza possono essere spacciate per oggettive e necessarie, di come accettiamo di delegare infinito  potere sulla base di uno stato di necessità da cui non usciamo da tre anni, che allora diventa un periodo di necessità, un periodo destinato a durare.

E durerà, questo governo, perché fa comodo e finché farà comodo; perché concede tempo a chi necessita di tempo: alla destra, che promuove le sue politiche restando libera di svincolarsi al primo momento utile; al PD, che non aspetta altro che tempo e ancora tempo per evitare di risolvere i suoi problemi interni e che in nessun modo oggi sarebbe stato in grado di presentarsi decentemente ad una nuova campagna elettorale. Con quale segretario? Con quale candidato? Con quale programma? PD che d’altra parte non si rende conto della morsa in cui si sta stringendo, della sua impossibilità di azione. Oggi  Zanda parlava del governo Letta come garante dello stato sociale, a proposito di alienazione dalla realtà…

E il Paese dove va? Il Paese di cosa ha bisogno? A sentire Letta sembra che tutti abbiamo bisogno di lui, cioè della sua presenza, della sua calma serafica. Io non ne sono affatto convinta. Ma anche questo, in fondo, è poco interessante.

Il fatto interessante è che galleggiamo in uno stato di costante carenza democratica. Il rifuggire le elezioni come se fossero il male radicale è una carenza democratica. Il fatto che i telegiornali non parlino che di mercati finanziari ogni volta in cui c’è una minima instabilità politica è una carenza democratica. Il fatto che Letta sarebbe stato disposto a governare pure se avesse ottenuto la fiducia solo da una parte di transfughi del PDL è una carenza democratica.  E questo è pure un ritorno indietro, alla Prima repubblica infinita in cui siamo ancora, che oggi si svela dietro il volto buono dell’uomo con gli occhiali e l’espressione gentile.

Ilaria

lunedì 30 settembre 2013

La festa di SEL, il sogno su D'Alema e un lunedì di pioggia


Aprire gli occhi la mattina e sentirsi leggeri e pronti alla giornata non è così ovvio quando Bologna ti accoglie con uno di quei suoi cieli pesanti, grigi, inamovibili. Io oggi mi sono svegliata così, nonostante la pioggia leggera e perseverante che rende inutili i cappucci, gli ombrelli, e ti s’attacca addosso come una seconda pelle. Mi sono svegliata così, dicevo, dopo aver sognato D’Alema in persona tutto preso a spillare delle birre. D’Alema in persona che mi cazziava perché in una birra spillata da me c’era troppa schiuma, e la sottoscritta in persona che gli rispondeva, sorridente ma a tono, “ prenderei anche sul serio questo rimprovero se tu non fossi D’Alema!”. Non so, magari prendersela con D’Alema in sogno e ricordarselo al risveglio è uno di quei fattori che rendono sopportabili la sveglia, la pioggia e tutto il loro corollario di mestizia!

Così me ne sono andata da Maurizio, che è bar e barista, che in nessun modo riesce ad astenersi dall’immancabile consiglio sul cornetto “la pasta salata alla nutella è ottima eh… bada…”e ti mette jazz a prima mattina, ti accoglie nel suo mondo di legno vecchio e di giornali nuovi. Oggi mi tocca il Corriere, che apro al mio tavolino sotto il portico aspettando l’ottimo the al limone che in fondo è un normalissimo the grigio con del normalissimo limone un po’ a pezzi, un po’ spremuto: la specialità della casa. E insomma capita che mentre inizio a leggere l’istituzionalissimo e solitamente moderatissimo, ennesimo editoriale di De Bortoli, avventori al mio fianco dibattono di politica…

“Ah beh ma l’avete sentito Letta da Fazio?”
“E no, io non sapevo ci fosse già Che tempo che fa!”
“Ma perché, tu lo guardi? Con quelle domande lì… ma che significa chiedere Lei che ne pensa dell’epiteto diversamente berlusconiano ?? Ma che domanda è!”
“Hai ragione sai… Ma insomma il governo è caduto”
“No ancora no”
“Ma te dici che cade?”
“Mercoledì vanno a chiedere la fiducia là…”
“Mmm… Ma che poi se cade, cioè non si può fare un’altra cosa tecnica, tu dici che Monti non sarebbe di nuovo disponibile?”
“Ma va… Che poi che se ne vadan tutti, non mi importa.”

E così finì, con l’ultimo commento lapidario, con l’ultima sentenza. Mi alzo dal tavolo e me ne vado, pensando all’indignazione che mi avrebbe colta se avessi ascoltato quella conversazione quando ero un’arzilla diciottenne matricola di scienze politiche, convinta che di politica potessero parlare solo gli addetti ai lavori,  e a quanto oggi quel breve dibattito mi incuriosisca. Mi domando chi siano quelle persone, cosa facciano nella vita, che cosa aveva in mente la ragazza che auspicava un impensabile ritorno di Monti, e chi è l’altro, il disilluso? Chi hanno votato, cosa vogliono? Cosa domandano le persone? E proprio non so se sia stata l’Economia a rendermi più umile o se la placida benevolenza che accompagna i miei passi sia dovuta alla soddisfazione effimera per la risposta a tono al mio D’Alema immaginario. Arrivo a lezione e il tema del giorno è all’incirca riassumibile ne i poteri taumaturgici delle matrici varianze covarianze e mi rendo conto che l’econometria è bella, nonostante l’arida facciata di algebra lineare, nonostante i terribili software, nonostante pure una certa maniacalità teorica.

Insomma sono a lezione, in una giornata oggettivamente brutta, dopo aver ascoltato sconosciuti parlare di politica in un modo oggettivamente un po’ insensato. Fa pure freddo. E nulla mi tange. Dietro questo buonumore ci sarà l’ombra di D’Alema.
O forse è merito di Rob Brezney, autore dell’unico oroscopo al mondo che le persone non si vergognano di consultare. Sarà merito, dico, dei suoi mitici consigli della settimana scorsa, dei suoi compiti per tutti, dei suoi moniti saggi a tratti incomprensibili, sempre un filo catastrofisti ma che poi in fine prendi, se li prendi, un po’ come ti pare. E io stavolta – già – ho messo in pratica l’oroscopo.

E così in fondo è pure merito mio questo particolare buonumore, merito dell’autobus 19 preso dall’altra parte della città, merito di Viale Togliatti, merito della Festa di SEL, dove la musica è un’altra davvero. Sarà merito di un giorno e mezzo di sana e temprante manovalanza, della generosità che scopri in persone sconosciute fino ad un attimo prima, che ti aprono le porte con una naturalezza che in questo presente di corse e di spintoni sembra irreale. Persone che sono singoli e sono comunità e che a vederle così, con la curiosità del tuo sguardo esterno, ti sembrano venute da un posto lontano in cui la solidarietà, la collettività, l’unione di intenti, non sono parole vuote né vecchie ma vivono nelle braccia che sollevano sedie e tagliano cipolle, nei sorrisi che si allargano sulle facce stanche del fine serata, nel lavoro costante che sta dietro la festa e la sua leggerezza, nell’impegno quotidiano. Pochi gesti valgono la stima, valgono pure un ringraziamento per un’esperienza a sé, che in un attimo mi ha spalancato la mente e mi ha regalato un pensiero bello da aggiungere agli altri, quelli che fanno bene nei lunedì di pioggia.

Ilaria

domenica 26 maggio 2013

Silenzio Elettorale

Questa è una città di persone miracolate e persone miracolose, e i più miracolosi sono gli amici del santo col tricolore, quelli unti dalla sua benedizione.”
 
dal racconto “I Pregati” in Rumore di Cicale 
di Emanuele Gaetano Forte (2013, edizioni Il Foglio)


Mentre mi metto a scrivere Emanuele presenta il suo libro di racconti a Latina, Claudio sta prendendo il regionale  Roma – Villa Literno, che non è un treno, è un’esperienza di vita; mia madre spalanca forse le finestre del salotto, Audrey come una sfinge fa da guardia al giardino in cui Fabrizio come sempre è all’opera e mio padre, più in là, chissà se ha messo su un pranzetto di vongole e cocci all’acqua pazza.  A Formia ci sono le elezioni comunali.

Insomma, è uno di quei momenti in cui la sensazione di stare nel posto sbagliato assurge al rango di certezza e consola questa nostalgia provinciale solo il sole inaspettato di Bologna, dove oggi votano per questioni di principio e di sinistra e dove pure la mia presenza serve a poco. Ma tant’è, faccio il mio dovere come sempre, sigaretta o penna nella mia destra, i  tetti rossi dei palazzi di fronte e fogli sterminati di matrici e improbabili sistemi di equazioni.

E penso a casa, che è vicinissima per post-modernità ferroviarie e lontana per mia scelta di studente(ssa) stakanovista. Penso alla carta copiativa delle schede elettorali e ai minuti che non passerò nella cabina, a guardare i simboli e poi scegliere con la mia X netta, dritta; al caffè che non ho preso con mia madre, alle chiacchiere, a cui non assisterò, di mio padre con avventori da seggio e rappresentanti di lista, di quelli che fanno della Pedemontana tema degno dei Massimi Sistemi. 

Uno a leggere queste righe forse riderà, ma chiunque sia nato in provincia e abbia quel poco di sensibilità necessaria conosce a memoria la narrativa romantica del vivere provinciale, di quell’esistenza a parte fatta di vicoli e santi patroni, e capisce bene l’attaccamento che ti lega a quelle città piccole e sconosciute, dove il racconto della storia arriva anestetizzato e in cui la storia sembra che non la si faccia mai, escluse guerre e unità nazionali. Ma se ci si discostasse da quest’interpretazione mediatica della realtà, in cui la risonanza di un evento ne determina l’importanza, si comprenderebbe meglio il valore della costruzione storica e politica come attività quotidiana, come evoluzione individuale all’interno di un processo collettivo. Per questo le elezioni comunali sono importanti, fondamentali, dico, ché il palazzo municipale è il primo contatto della gente con lo Stato ed è il luogo dove tanto si annidano arrivismi e favori quanto invece, se la gestione della cosa pubblica è in mano a persone consapevoli del loro ruolo, c’è davvero la possibilità di incidere sul modo di vivere della gente, di imporre magari una cultura della cittadinanza consapevole, se non attiva.

A Formia di lavoro da fare ce n’è tanto e i molti che si sono rimboccati le maniche in questo tempo sbandato lo sanno certo meglio di me, che in fondo sono più avvezza alle valige che alle case.

Formia è al limite di due regioni, spiaccicata dalle montagne sul mare, contraddittoria per sua natura di confine e per miste influenze culturali: l’accento di Napoli, l’orgoglio del sud e quel tanto di campanilismo che fa venir voglia di sentirsi Nord, o almeno Centro . Formia è un misto di malavita arrivata come un fiume carsico e di tostissime ottantenni scettiche sull’opportunità di fare la raccolta differenziata, di ragazzini in motorino e longevi opinionisti a fare da guardia ai tubi di fronte Piazza Vittoria e alla rotonda, al porto, al mare. E nonostante questo e nonostante la noia della provincia quante persone laggiù non hanno rinunciato ad un’intransigente resistenza culturale? Tra Enza e le sue rassegne letterarie e il piccolo mondo moderno dei teatri figli dei fieri anni settanta della provincia; tra jazz e artisti, fotografi e poeti e imprenditori locali; per mano e per voce dei ragazzi che non se ne sono andati, che lì fanno i banchetti la domenica, che lì fanno politica tutti i giorni, Formia è un posto che pullula di storia e di possibilità, tanto che in certi momenti romantici mi piace pensare che sia per uno qualche disegno di progresso che là è stato incarcerato Gramsci e che ancora lì hanno vissuto Pietro Nenni e Vittorio Foa.

Le elezioni di oggi in quella conca di burberi e di fatalisti possono voler dire tanto, in termini di un cambio di passo culturale che permetta a quella città di uscire dal pantano della gestione sciatta e autoreferenziale subita negli ultimi tempi. E mi sembra  positivo che ci siano tante liste e tanti candidati, pacchi di giovani intelligenti sparsi letteralmente a destra e a manca – ma più a manca... Mi pare il segnale che le persone abbiano ritrovato la voglia di prendere parte ad un processo di ricostruzione dell’amministrazione e perciò spero che queste facce pulite, a volte incazzate ma ben intenzionate, abbiano la meglio sui carnet di voti di tanti soliti noti.  

Così  mi dispiace non essere Giù, non essere a casa per una volta e questa malinconia elettorale ha un po’ a che fare col senso civico e molto con le cronache sentimentali, ovvero con la consapevolezza profonda che le distanze e la ricerca della mia strada e della mia libertà, non cancellano le origini, il sentimento di essere figlia di una terra che non è meno mia perché non la abito più e i cui destini per questo mi riguardano fortemente, come sempre.

Ilaria


p.s. pubblicità progresso per chi fosse interessato al libro, che è bellissimo, che ho citato sopra. http://www.ibs.it/code/9788876064128/forte-emanuele-g-/rumore-cicale.html

mercoledì 24 aprile 2013

Ventate di marxismo e ottimismo liberale

E' stata una giornata lunga. Diciamo pure che io ho deciso di allungarla ulteriormente andando ad assistere a un incontro con Fausto Bertinotti nell'aula più sindacalista della Facoltà d'Economia più neoclassica d'Italia. Una contraddizione in termini.

L'incontro, che doveva accendere un dibattito sui destini della sinistra dall'Università di Bologna all'Italia intera  si è presto rivelato una lezione, a tratti un comizio. Il compagno Fausto, dal canto suo, è uomo di cultura e d'esperienza e sa farsi ascoltare. In pochi minuti, a seguito di una mesta domanda posta dal giovane mediatore al solo fine di spingerlo a parlare della situazione attuale, si è tolto gli occhiali troppe volte, se li è messi in mano, in testa, sulle sopracciglia in un equilibrio al limite estremo tra fisica e metafisica, poi li ha sbattuti sul tavolo, nemmeno fossero di gomma. E intanto ha sciorinato i più grandi nomi del pensiero politico del Novecento, colpendomi in pieno sul sentimento e mettendo a dura prova la mia parte razionale e critica.

E' difficile stare vigili di fronte a una retorica così ricca di cultura e intransigenza. Ci si sente conservatori nell'anima, reazionari vili e statici democristiani, in un miscuglio letale di autocommiserazione. Si è talmente presi dal discorso da perderne il senso a tratti senza mai distrarsi dall'ampiezza del respiro che lo muove e quel fascino subìto fa un po' perdere di lucidità. Poi sono tornata in me. E mi sono resa conto che tra tutti i temi che "Fausto" ha trattato ne mancava uno che per me è centrale, di cui dirò tra poco.

Benché il Nostro abbia attraversato di buona lena lo scibile politico tutto, dal nuovo movimentismo alla critica verso la classe politica, dal rovesciamento del conflitto di classe alla storia del PCI, dalle Costituzioni liberali a quelle democratiche passando per l'involuzione liberista della politica economica negli ultimi vent'anni, la sua argomentazione si è arenata su un punto, direi Il punto e cioè: Che fare?

E' la domanda più ricorrente e meno banale, quella che costringe pure i più grandi amanti dei voli pindarici a tornare coi piedi per terra e capire che bisogna pur dare sostanza alle proprie gloriose aspirazioni di giustizia e di progresso. La pecca del discorso di Bertinotti stava  nell'aver evitato di delineare la parabola politica dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, inserendola nel contesto della costruzione europea.

Il suo discorso, che muoveva da un'analisi dell'evoluzione della "Costituzione materiale" rispetto a quella "formale", con particolare riferimento ai temi del lavoro e della legittimazione del potere politico, si limitava ad una specie di comparazione tra il momento dell'approvazione della Costituzione del 1948 e la situazione politica attuale. Messa in questi termini e con il giudizio mediato non dalla storia ma dalla cronaca, è ovvio che ogni lettura diventa in breve tempo una critica morale, un confronto di valore tra la classe dirigente di allora e quella di oggi. Tale confronto è certo necessario, se non altro per rendersi conto dei picchi e degli abissi che possono raggiungere la ragione e la dignità umana; ma porre il problema in termini etici elimina la Storia dall'analisi e dunque, di fatto, impedisce di capire quali motivi (e dunque le responsabilità di chi) ci hanno portati dove siamo oggi.

Ora, Bertinotti si è fermato molto a dibattere del ruolo svolto dall' Unione Europea nell'acuire crisi già profonde in certi Paesi (Grecia e Italia in primis) e, in particolare, dell'assurdo di una sovranità monetaria che sovrasta la sovranità popolare. Parole vere e bellissime, ma che non spiegano come l'Unione Europea sia  diventata ciò che è oggi. Il ruolo svolto dai suoi organi (e non solo) dal momento in cui si è iniziato a parlare di crisi del debito sovrano non è solo dettato dalla contingenza, ma soprattutto frutto di scelte politiche passate fatte dai governi dei paesi membri; in gran parte si è trattato di errori di miopia e sottovalutazione di ciò che l'unità economica avrebbe comportato e dell'importanza di un' unità politica che la controbilanciasse. Il Bertinotti che accusa l'UE di essere un cumulo di trattati è come se perdesse di vista che quei trattati li hanno siglati dei governi, ovvero degli Stati, ovvero degli uomini politici.  In un certo senso, nel costruire l'Europa unita la politica ha abdicato al suo ruolo: nel tentativo di garantirsi una sovranità nazionale fittizia, ha finito per essere irrilevante sul piano che, nel mondo dei grandi potentati globali, determina gli altri, cioè quello mondiale. Il fallimento degli stati si trascina dietro il fallimento della politica nel senso che rispondere a mutamenti economici transnazionali con provvedimenti nazionali è o difficile o impossibile. Ma di spostare la sovranità ad uno Stato più alto non se n'è parlato ed oggi solo torna di moda il sogno dell'Europa federale, ma nemmeno troppo.

Insomma, mentre "Fausto" parlava della Troika e dei mercati e del cinismo della finanza io mi sono chiesta tra quanto tempo una sinistra incerta e pure nostalgica di certi internazionalismi d'antan, riprenderà un discorso internazionalista sul serio. Quando, cioè, capirà che per difendere il lavoro in Italia non bastano misure microscopiche elaborate ad hoc per rispondere a certe esigenze ma serve un discorso più ampio che includa la difesa del lavoro anche altrove, che arrivi almeno all'Europa attraverso un dialogo serrato con le sinistre degli altri Paesi e che allora, in modo unitario, potrà incidere davvero sulle decisioni politiche. Per fare questo bisognerà rinunciare al sempre ripudiato e mai sopito nazionalismo.

Bertinotti diceva che lo Stato Sociale figlio delle costituzioni del dopoguerra era un compromesso tra capitale e classi lavoratrici. Oggi quel dialogo non esiste, sostituito com'è da una costrizione che si esercita attraverso imposizioni apparentemente tecniche e invece orientate politicamente in difesa dei grandi interessi economici. Posso condividere e aggiungerei, però, che ciò è dovuto al fatto che ai livelli a cui il "capitale", per usare il suo lessico, opera, questo non ha interlocutori né oppositori e dunque monopolizza il potere. Se le forze progressiste si uniranno, però, e spingeranno nel senso di un'Europa largamente democratica e federale, credo che allora i rapporti di potere potranno essere diversi e l'opera dei governi potrà smettere di essere "octroyée", la democrazia potrà smettere di essere liberamente interpretata in senso più o meno paternalista e la difesa degli interessi dei cittadini, soprattutto dei lavoratori, potrà ricominciare ad avere un senso e un seguito in termini di azioni pratiche.

E' sempre emozionante inneggiare alla pacifica fusione di tutti i movimenti di protesta, invocare i barbari di cui Marcuse parlava nel Sessantotto, spingere a una ricostruzione della politica come vita quotidiana, come impegno di tutti i giorni e come scelta. Ma accanto a questo deve innescarsi, credo, un discorso più ampio che abbracci l'orizzonte nel quale ci muoviamo, questo vecchio continente di nuovo azzoppato, ovvero l'Europa.
In alternativa possiamo lamentarci del decisionismo illegittimo della BCE e sentirci molto puri.

Ilaria

sabato 20 aprile 2013

Comiche all'italiana o della tragicità della politica


L’elezione del Capo dello Stato è il momento più alto e solenne della vita repubblicana, ed in questi giorni si è trasformato nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, o del grottesco .

Sono tornati alla ribalta i fantasmi più grigi della peggiore Seconda Repubblica e i metodi più loschi della Prima, i più invertebrati arrampicatori sociali e i più andreottiani dei redivivi democristiani,  establishment reazionario, cinici d’alemiani  ed ipocriti separatisti, nani e ballerine; tutti uniti dall’istinto di autoconservazione di una classe politica di inetti, di ignoranti, nascosto sotto il sostantivo più altisonante e sbeffeggiato: la Responsabilità.

Non sanno loro, questi uomini piccoli, che la Responsabilità è quella di Tocqueville, di Kant, di Panagulis:  la responsabilità di rispondere ai propri doveri, dettati sempre da una morale disinteressata, universale e autonoma; la responsabilità di fornire giustificazioni al proprio agire libero, indipendente, intellegibile; la responsabilità di prendere posizione, delle scelte di cui si porta il peso, come una croce, a testa alta.

Li guardo sfilare uno dopo l’altro e li ascolto esprimersi nel loro modo banale, con frasi piatte, insensate, piene di metafore quanto prive di subordinate, come se le immagini che evocano servissero a riempire il vuoto miserabile dei contenuti, a nascondere ancora l’irrazionalità delle loro scelte.

Ha sbagliato Giorgio Napolitano ad accettare di farsi rigettare nella mischia di una politica sorda ai problemi della gente e sempre pronta a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità, nel realismo apparente che è solo incapacità di decidere. Mi chiedo quale sentimento o quale logica l’abbia mosso, al di là della convinzione, figlia di una lettura di questa fase storica che non mi sento in alcun modo di condividere, della necessità di un nuovo compromesso storico, l’incubo dell’esacerbarsi di una crisi sociale che però proprio questa classe politica, la sua mediocrità, le sue scelte scellerate stanno contribuendo a fomentare. Profezie che si autoavverano.

La democrazia è altro dai simposi di saggi rinchiusi a tessere le trame di un futuro migliore secondo la loro apparente oggettività e sommessa ideologia; altro dai governi tecnici a tempo indeterminato; altro, soprattutto dall’unanimità che nasconde il compromesso, il baratto, la collusione. E’ il senso della democrazia come chiarezza delle procedure – quella di un certo Bobbio - che in questi giorni stiamo smarrendo mentre ci arrotiamo in dinamiche tragicamente decisioniste e paternalistiche. Ed ecco l'apice della crisi.

Ed è quando la politica diventa autistica  che un periodo di crisi, che  dunque per sua stessa natura poteva essere di apertura, di rinnovamento, di progresso si trasforma nell’ennesima fase di conservazione. Ma l’Italia fuori dal Palazzo, a pochi metri dal grande Transatlantico di cui parlano con una certa vezzosa tenerezza i giornalisti borghesi, è una pentola a pressione, dove pure i più fedeli giovani democratici occupano le sezioni e forse si ricordano di Gramsci, di Contessa, della retorica pomposa ma autentica delle anime belle, tanto necessarie e tanto vilipese da certi Massimo D’Alema.

L’Italia transennata fuori da Piazza Montecitorio aspetta indolente e rabbiosa insieme, ed ha la faccia pensionati, dei commercianti, degli operai, dei trentenni in eterna attesa, della generazione dei miei ventenni perduti, che  vanno a piangere tra le braccia di un comico, cercando una risposta al loro sdegno nell’ennesimo imbonitore lasciato indisturbato a prendersi cura della disperazione dei poveracci e dei disillusi che sono sempre di più, che siamo tutti noi.

Ilaria