giovedì 17 marzo 2011

Unita troppo unita

Due cose mi hanno commossa oggi. 
Gli alpini con i loro berretti e le loro piume, ultraottantenni arzilli e fieri, vecchi combattenti, reduci da quell'enorme campo di battaglia che è stato il Novecento, ora a distribuire caffè e biscotti per i temerari che si sono alzati alle sei di mattina per partecipare all'"alba della Nazione", in questa piccola, Forlì dal cuore tiepido. Uno di loro, in un bel discorso patriottico ma non banale, ha citato Oriana Fallaci. Nessuno me la tocchi questa Italia bistrattata, tuonava all'incirca così ne "La Rabbia e l'Orgoglio". Un colpo basso, va da sé, e ci scappa la lacrimuzza da parte mia, che rispondo alla retorica quando è sentita, quando è partecipata e si fa quindi sentimento sincero, come ad un comando morale, a un precetto religioso. 
La seconda scena, il pianto dei cantanti d'opera del coro del Nabucco diretto da Muti dopo il bis del Va' Pensiero, il 15 marzo scorso. L'ho appena visto in tv, che ogni tanto si rende utile, in una bella registrazione in un programma condotto dal mitico Gianni Minoli.
Perchè la "Patria", quando è "sì bella e perduta" allora è anche dimenticata. E quando si arriva a dimenticare è tardi per porre riparo alle nostre mancanze. Bisognava pensarci prima. E allora quando la cultura, la storia, la tradizione di un vecchio popolo è calpestata  è proprio giusto che un Maestro d'Orchestra faccia politica attiva, a suo modo, restando nel suo ruolo. E' giusto che faccia politica e quindi storia. Ed è giusto che i cantanti d'opera piangano di commozione, forse di orgoglio o di gioia, la festa è anche la loro.
La sensazione che ho avuto, o magari la speranza, in queste ore un po' a rincorrersi, rapide, piene di immagini e di memoria in cui foto di giovani partigiani e altrettanto giovani patrioti diventavano quasi interscambiabili, così simili tutti negli sguardi fieri e giovani, in cui si alternavano immagini di simboli ora un po' più comuni, è stata quindi quella di un grande risveglio collettivo, di una sorta di presa di coscienza generale di quanto stavamo lasciando scapparci dalle mani, di quanto avevamo rimosso o dimenticato, di tutta la storia che avevamo sprecato. E insieme a questo sentimento finale e irrimediabile, ho visto la voglia contemporanea di rimettersi all'opera per uscire dal baratro di presente in cui siamo finiti, spaesati come barchette microscopiche in balia di chissà quale tempesta. Ho visto l'alba, per quanto sia difficile, dentro l'imbrunire. Il Nabucco che ritorna al suo posto di grande opera lirica, libera e quindi di tutti, e non simbolo ingiustamente ridotto ad essere fazioso, non strumento di attacco politico, non prerogativa di una qualche prepotente minoranza è il simbolo di tutto questo. Come le bandiere tricolori sui balconi, anche, dei radical chic. 
L'idea è che oggi sia stato un po' l'inizio di una fase storica nuova, che mette insieme l'archeologia meticolosa del passato e la progettualità creativa per il futuro, pensiero e azione, alla Mazzini, per restare nel tema. L'idea è che la volontà di ricominciare daccapo, senza la finzione dell'essere tutti uguali, ma con la consapevolezza che delle radici comuni le abbiamo, si stia diffondendo. 
Ora sta tutto nel domani, nella fine della festa e nell'inizio della vita, sta tutto o quasi alla politica, che dovrà confermare quanto promesso nelle belle parole di oggi, negli applausi scroscianti al discorso impeccabile di quel simbolo umano che è Napolitano, l'ultimo presidente partigiano. E sta a noi scendere dalle barricate, senza rinunciare a singole e indispensabili individualità, ma riconoscendo nell'altro l'interlocutore, il compagno, il nostro simile.
Per tutto il giorno ho pensato a quelli che avrei voluto avessero assistito a questo giorno. Come al solito, nella schiera dei fantasmi, i miei nonni sconosciuti in prima fila. L'operaio e il dottore. Chissà cosa avrebbero fatto oggi. Una bella bandiera sul balcone, credo, come me che un po' l'ho appesa, nella sua rusticità, per sentirmi parte della storia che anche quelle due vite hanno contribuito a fare, per ringraziarli, per ricordarli, con tutti gli altri e con quelli prima di loro. 

lunedì 7 marzo 2011

un punto

Cronache sentimentali. Niente più di un collage di titoli di Vasco Pratolini riesce a descrivere ciò che mi riguarda. Pochi libri come Cronache di poveri amanti e Diario sentimentale sono riusciti a commuovermi, ad impressionarmi e a farmi identificare nella fragilità umana dei personaggi, nella poesia delle parole accostate a formare la prosa. Ho scelto questo titolo per ricominciare da me, per mettermi alla prova, dopo due anni a far finta di non aver più niente da dire. Due anni a chiedermi se fossi ancora in grado di mettere due parole in riga. Due anni e forse più dall'ultima frase che ho scritto dove anche altri all'infuori di me potessero leggerla. Poi più niente. Soltanto, ad accompagnarmi, una timidezza improvvisa, un salto indietro alla mia infanzia, al lungo sonno dei miei primi anni, alla mia paura del giudizio degli altri, alla fuga in angoli sempre più nascosti e silenziosi e vuoti. Due anni sono passati fatti di saluti e di cambiamenti epocali, di facce sempre pronte a voltarsi, ma dall'altra parte, di amici andati tra pause di silenzi interminabili e vite diverse a rincorrersi da altre parti, in posti comodamente lontani abbastanza per avere una scusa per lasciarsi andare, per dirsi che non si ha più niente da dire o per non dire niente e basta, perché le cose cambiano, le persone anche. Due anni kantianamente morali, di esami, di voti, di numeri gelidi da accumulare per andare avanti, unico mezzo e unico obiettivo di giorni senza prospettive e senza senso, per mia colpa, per mia incapacità, per la mia paura di scontrarmi con la vita, con gli altri.
Così ho aperto questo blog, un po' triste, un po' retorico per ora. Ma io so essere triste e so essere retorica, non ho affatto voglia di nascondermelo ancora per far finta di essere ciò che altri si aspettano, per modellarmi su misura per ottenere consensi, apprezzamenti inutili, sorrisi facili. Ho aperto questo blog per sapere che non sono invecchiata all'improvviso, che ho una vita da vivere, una vita da raccontarmi, da conservare in ogni attimo prezioso; per esistere senza sentirmi solo il progetto di ciò che sarò tra dieci anni, per non studiare e basta, per non smettere di avere voglia di essere altro. L'ho fatto per un sentimento atavico di narcisismo, per rileggermi e ridermi addosso o per sapere se ad altri interessa di ciò che passa in una vita di provincia, e se magari ci si rivedono, un poco; per sapere se un po' gli piace, se si nascondono quello che io mi dico, se sotto ogni sguardo si nasconda solo un "ipocrita lettore" o magari anche un "mio simile". 
Una mia cara amica mi ha fatto notare che entrambe sembriamo regredite allo stato della nostra depressione adolescenziale. Non le piace questa storia del blog, credo. Per lei deve essere un passo indietro. Per me, però, è il modo per ricominciare daccapo, per uscire dal silenzio profondo di questi ultimi anni a galleggiare aspettando non so bene cosa, a chiedermi quale fosse la cosa giusta da fare, a domandarmi quale fosse il comportamento adatto per piacere agli altri, e perchè la mia pesantezza, la mia timidezza non fossero capite, non fossero accettate o perchè io non fossi in grado di fare in modo che così fosse. E' il mio personale rimedio per tornare a dire a dire ciò che penso, a sentirmi viva, dopo troppo tempo passato nella macabra percezione del contrario.

domenica 6 marzo 2011

notizie dalla morte e dalla vita

Niente mi perseguita come la paura della morte. 
Avevo tre, quattro anni, nei primi ricordi che ho in mente segnati da quest'angoscia tremenda del vuoto, del nulla eterno, della fine di tutte le cose, dell'oblio. Mi svegliavo di notte sputando lacrime ansiose, interminabili. E mio padre, giovane allora, veniva a consolarmi, a dirmi di non preoccuparmi perchè "c'è sempre tanto tempo da vivere". Eppure quest'ansia non ha smesso di assillarmi. Ritorna in certe notti insonni, o prima di addormentarmi, come un pensiero fisso che fingo soltanto di accantonare nel giorno e che con il buio si ripresenta, ospite non certo benvenuto. Non credo di credere in un Dio. Questo non fa che peggiorare le cose. Allora mi metto a scrivere, conservo maniacalmente gli oggetti della mia vita. Metto da parte gli scontrini, i biglietti dei concerti e del cinema, recupero vecchie foto di famiglia, ho ancora da qualche parte le chiavi della vespa che qualcuno ha rubato, scrivo sulle prime pagine dei libri il mese e l'anno in cui li ho letti, come ha sempre fatto mia madre. Riordino la memoria, come se l'archeologia del passato servisse a non pensare a quel futuro inevitabile, al fatalismo misero dell'esistenza umana, alla sua precarietà. Ma al futuro ci penso e ogni volta lo immagino come ciò che desidero, come una casa accogliente, chiassosa nelle cene con vecchi amici, con i bicchieri sporchi di vino e l'aria densa del fumo delle nostre sigarette, con un disco a suonare piano mentre lavo i piatti aspettando la mattina dopo e lì una redazione affollata, caotica, e articoli da scrivere e vite da raccontare e per farlo viaggi, inchieste e la scoperta del mondo, l'andare per avere un posto in cui tornare e qualcuno ad aspettarmi, sulla porta.


A G.