sabato 5 ottobre 2013

Alla tua malinconia sghemba

Andarsene dove, con cinque euro di benzina?

Gli irrequieti si pongono queste domande, se le pongono gli idealisti, i provinciali. Loro, poi, si chiedono sempre dove andare per trovare il mondo, abituati –e costretti- come sono, a confrontarsi con una realtà piccola piccola; provinciali che conoscono come le proprie scarpe i muri vecchi di città invisibili, le scritte con le bombolette su casermoni logori, la solita birra del bar vicino casa, i cani randagi a cui hanno dato un nome…

E forse è l’abitudine a quei posti risaputi e usuali, o forse è quella sensibilità tutta umana che chiamiamo curiosità,  a spingerli a cercare altro, un luogo che risponda alle loro domande, o dove almeno qualcuno sappia fare il caffè.

Questo cerca Matteo, un posto altro dove non ci siano baristi che hanno fatto corsi di barman ma che poi ti fanno una chiavica di caffè che dovresti solo sbatterglielo in faccia; e in questo desiderio tanto terreno c’è una voglia di volare ad alta quota, di andarsene a vedere le cose da lontano così che appaiano più chiare o pacificate, chissà. Ed Emanuele, tramite Matteo e con lui, va a cercare quella medesima libertà.
Così, la scoperta triste del progetto dell’Alfa di fabbricare un SUV diventa una scusa decente per mettersi in macchina e andare… Dove? Altrove… 

Ed eccoli là, quattro amici che si sanno a memoria, tutti e quattro e ciascuno a suo modo di una malinconia sghemba, in una macchina con cinque euro di benzina, Paolo Conte come necessario sottofondo.

Ma dove ve ne andate se dietro di voi ci sono le montagne e gli alberi morti per vecchi roghi estivi e il neon della statua del Cristo Redentore? Dove ve ne andate se davanti a voi c’è il mare, quello in cui si è perso il vostro sguardo, il mare grande da scrutare, mare lontano che piace immaginare libertà e che invece è limite invalicabile, compagno e confine, che spalanca la vista e impone orizzonti finiti?

A questo non pensano mentre vanno, mentre scivola come una ninnananna nelle orecchie Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna… Vanno e basta. Vanno a Sperlonga, sulla spiaggia, a Itri, a domandarsi in silenzio chi sono, a lanciare i sassi nel mare, a saltare dai gradini e a dormicchiare sulle panchine sotto un tramonto rosa.  Soprattutto, con romantica superbia, vanno a chiedere il cielo di togliersi il cappello davanti alle loro gioiose ambizioni, davanti alla loro profondità.

E mentre il motore gracchia, mai nominato apertamente è il senso del viaggio, il dilemma di sempre, ad aleggiare sullo sfondo. Perché scappare, e da cosa, se poi in fondo il caffè non era male, se poi c’è una bellezza immensa, anche, nelle cose piccole? Che senso ha cercare spasmodicamente la grandezza, se poi la grandezza sta nel cogliere la meraviglia nei fatti che ci capitano, nelle persone che ci circondano, nei rapporti sinceri, negli sguardi complici, nei desideri comuni? E se tutto il meglio fosse già qui?

Quella dei ragazzi nella macchina col serbatoio in riserva non è arrendevolezza ad un presente dato, ad un futuro scontato. Il loro non è provincialismo. Il loro sguardo è quello vispo di chi ha guardato il mondo, si è sforzato di capirlo e forse ne ha colto l’inganno e a quell’inganno si rifiuta di soggiogarsi e così si ostina a vivere per com’è, a schiena dritta e come desidera, senza imporsi altro al di là di un buon caffè.

.
Ilaria

Grazie a te ho una barca da scrivere
ho un treno da perdere

p.s. Lettori, miei cari, cliccate su questo link( La Comédie d'un Jour, vincitore del  Corto Moak 2013 )per guardare un cortometraggio che dura quanto due canzoni di Guccini, o quattro canzoni di qualunque autore normale. Sono tredici minuti di cui non vi pentirete, se vi andrà. 

mercoledì 2 ottobre 2013

Scissione all'interno del PDS: la poesia del lapsus della giornalista di La 7

Il PDL muore, il PDL si sfalda, si lacera. Si esaurisce la spinta propulsiva del PDL. Scissione dei moderati, separatismi dei ciellini, divisionismi di ex craxiani. Nascono nuovi gruppi parlamentari, o forse no, o si. La fiducia non si vota, ma alcuni lo faranno (maledette colombe), allora dai ripensiamoci tutti, si dai votiamola. Berlusconi vota la fiducia. Il dramma umano di Bondi è evidente, uno stato di profondo nichilismo lo attanaglia: che fare? Che pensare? Il tabù Berlusconi ha ucciso il totem di se stesso. Si direbbe che al posto dell’atteso parricidio un autentico suicidio politico si sia verificato. Un gran trambusto di servizi ed inviati specialissimi vessati dai rispettivi direttori dei TG. Domanda Mentana, davvero emotivamente coinvolto: “Quali sono gli ultimi boatos da Palazzo Madama?”. In giornate così, quando la politica diventa pettegolezzo, vociare indistinto, anche il neologismo è arte.

 Berlusconi si è arreso ad Alfano, il vecchio ha ceduto il passo al giovane e volendo si potrebbero mettere in fila chilometri di metafore imbarazzanti sui delfini e gli adolescenti con le chiavi di casa e altre infinite banalità. La linea politica degli strenui difensori del nostro anziano eroe ha perso; la battaglia corpo a corpo delle pitonesse e dei falchi contro i mulini a vento degli ostili al capo sembra essersi esaurita in un niente, o meglio in poche frasi del capo stesso, che in due minuti scarsi, come a volersi togliere il prima possibile dall’impaccio, dal basso del suo scranno si rimangia tutti gli attacchi, gli sproloqui e le manifestazioni un po’ paranoiche dei giorni scorsi e si decide a sostenere Letta. Si sarà accorto che la sua vera fine politica sarebbe stata causata da una odierna sconfitta numerica. Meglio evitare uno scontro frontale se ci si riconosce più deboli del nemico interno, meglio rientrare nei ranghi e aspettare.

Tutto questo non è poi tanto interessante.

Però si ascolta un discorso di Letta che ammicca alla destra, e pure al suo vecchio leader azzoppato, che quasi quasi gli diventa complice, sottintende vicinanza, che di irricevibile e non-votabile dal beneamato Caimano non ha proprio niente. Anzi, si ascolta un discorso retorico e farcito di una morale fuori luogo, di nomi fuori luogo, altisonanti, troppo, rispetto al momento di oggi, come a volerne sopravvalutare la gravità. Sarà per la convinzione di essere investito da un compito tanto sovrumano, che Letta presenta se stesso come l’uomo in grado di restituire all’Italia una grandezza che, pur essendo stata la nostra storica ossessione, non abbiamo mai avuto. E per questa convinzione Letta si sente unico responsabile, unico salvatore ed ha acquisito una fiducia nella propria capacità politica che fino a cinque mesi fa sembrava impensabile. Sarà per questo motivo che rivendica con fierezza le borse di studio per i conservatori e tace candidamente sugli inutili battibecchi sull’IMU, sul macroscopico problema dell’aumento dell’IVA, sulla triste latitanza di un vero dibattito parlamentare sulla legge elettorale...

E così traspare finalmente in modo netto, dalle parole di Letta, dalle sue incrollabili certezze, che il governo che era stato presentato qualche mese fa come temporanea soluzione ad un irrisolvibile e contingente problema di ingovernabilità, oggi si pone come governo autenticamente politico, del tutto legittimato a governare per un orizzonte temporale ben più vasto di quello inizialmente indicato. Questo è un fatto interessante. Anche vagamente inquietante, in realtà.

La mia sensazione è che oggi, piuttosto che perdere tempo a parlare della sconfitta berlusconiana, che poi mi pare del tutto marginale, si dovrebbe discutere di quanto nel giro di poco tempo questo governo abbia aumentato nei fatti i suoi compiti, di come questa evoluzione sia stata accompagnata da un progressivo addormentamento dell’opinione pubblica, di come la pacificazione tanto decantata sia in realtà una spaventosa assenza di vivacità intellettuale da parte di una cittadinanza sempre più passiva, di come siamo arrivati a dare per scontato che esistano comitati di saggi a proporre pacchetti di riforme che solo in apparenza possono essere spacciate per oggettive e necessarie, di come accettiamo di delegare infinito  potere sulla base di uno stato di necessità da cui non usciamo da tre anni, che allora diventa un periodo di necessità, un periodo destinato a durare.

E durerà, questo governo, perché fa comodo e finché farà comodo; perché concede tempo a chi necessita di tempo: alla destra, che promuove le sue politiche restando libera di svincolarsi al primo momento utile; al PD, che non aspetta altro che tempo e ancora tempo per evitare di risolvere i suoi problemi interni e che in nessun modo oggi sarebbe stato in grado di presentarsi decentemente ad una nuova campagna elettorale. Con quale segretario? Con quale candidato? Con quale programma? PD che d’altra parte non si rende conto della morsa in cui si sta stringendo, della sua impossibilità di azione. Oggi  Zanda parlava del governo Letta come garante dello stato sociale, a proposito di alienazione dalla realtà…

E il Paese dove va? Il Paese di cosa ha bisogno? A sentire Letta sembra che tutti abbiamo bisogno di lui, cioè della sua presenza, della sua calma serafica. Io non ne sono affatto convinta. Ma anche questo, in fondo, è poco interessante.

Il fatto interessante è che galleggiamo in uno stato di costante carenza democratica. Il rifuggire le elezioni come se fossero il male radicale è una carenza democratica. Il fatto che i telegiornali non parlino che di mercati finanziari ogni volta in cui c’è una minima instabilità politica è una carenza democratica. Il fatto che Letta sarebbe stato disposto a governare pure se avesse ottenuto la fiducia solo da una parte di transfughi del PDL è una carenza democratica.  E questo è pure un ritorno indietro, alla Prima repubblica infinita in cui siamo ancora, che oggi si svela dietro il volto buono dell’uomo con gli occhiali e l’espressione gentile.

Ilaria