venerdì 23 novembre 2012

Oppure… due righe sulle primarie


C’è molto poco che io mi senta davvero di condividere del modo in cui sono state organizzate queste primarie del centrosinistra e nemmeno ne apprezzo particolarmente il valore. Mi è parso che troppo fosse abbozzato, nelle regole e soprattutto nei contenuti, al punto che per lungo tempo mi è sembrato si trattasse solo di una sorta di congresso popolare, di una resa dei conti  misera all’interno del PD. Figli yuppies, padri che furon sessantottini e in mezzo una donna, Laura Puppato, tanto in gamba quanto sola. 
Nadia Urbinati ha ragione quando sostiene che le primarie sono lo strumento per antonomasia in grado di svuotare la politica di senso, poiché la riducono come nient’altro a una questione di comunicazione e di audience, mettendo in secondo piano la parte attiva della partecipazione politica che è la caratteristica principale di una cittadinanza autenticamente consapevole, oltre che libera.
Ma allora perché andare a votare, nonostante lo spaesamento, nonostante anche la frustrazione?
La mia sensazione è che il prezzo dell’astensionismo in quest'occasione storica sarebbe troppo alto.
"La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d' una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo", scriveva Giame Pintor. E questo è uno di quei momenti, che forze politiche che si definiscano di sinistra e progressiste non possono perdere l’occasione di cogliere. E in momenti così non si può non assumersi la responsabilità di scegliere. Astenersi per sentirsi al di sopra delle parti, per preservare la propria purezza, oggi non ha senso. E’ sporcandosi le mani con la realtà che si dà la propria impronta alle cose e, anche, che si acquisisce il diritto di criticarle. Le elezioni di marzo indicheranno la strada che questo piccolo Paese percorrerà nei prossimi decenni e le scelte da prendere sono tante. La sinistra ha davanti a sé la sfida di ridefinire non solo un programma di politiche pubbliche, ma i contenuti stessi del suo sistema di pensiero di riferimento.
Si tratta, cioè, di ridare senso ai temi, peso alle parole che hanno caratterizzato la sinistra fino agli anni ottanta e che sono state, poi, progressivamente abbandonate sulla scia di una globalizzazione che nel mondo cosiddetto sviluppato sembrava promettere infinito progresso e ricchezza e, in fine, rinnegate quando il crollo del blocco sovietico ha rivelato a un mondo già consapevole ma cieco i drammi del socialismo reale.
La storia dei nostri giorni, però, costringe tutti coloro che ancora hanno gli occhi per vedere a porsi forti dubbi sul senso di uno sviluppo fondato sulla cultura dell’individualismo, dell’egoismo, della corsa alla ricchezza. La crisi ci obbliga a porci il problema delle pari opportunità (senza le quali, per inciso, non ha neppure senso parlare di meritocrazia), delle disuguaglianze, della giustizia sociale, se non per un personale istinto filantropico, almeno perché bisognerebbe tener presente che l’aumento eccessivo delle disuguaglianze sociali rischia di mettere in discussione lo stesso modello democratico.
Scrivere “rischia” è già tardivo, perché non è più da pochi giorni che le estreme destre, con la loro buona dose di nazionalismo e di razzismo hanno ricominciato ad attirare consensi in Europa. E l’appiattimento delle sinistre su posizioni sempre più centriste, lo scimmiottamento ventennale di teorie liberali e liberiste ha avuto certamente un ruolo nel far sentire troppi cittadini sempre più abbandonati e meno rappresentati. Ieri mia madre mi faceva notare, ad esempio, che un contadino calabrese non capirebbe mai come iscriversi alle primarie online, e che un partito che non si pone il problema di far votare un contadino calabrese non è un partito di sinistra. Il suo pensiero non è sbagliato né naif; anzi, coglieva il problema di fondo: l’abbandono di quelle masse di cui pure si rinnega l’esistenza proprio da parte di chi dovrebbe teoricamente rappresentarle. Se è vero che i connotati delle classi si modificano costantemente è pure vero che le classi non hanno mai smesso di esistere. La sinistra dovrebbe impegnarsi a conoscerla questa nuova società, al di là di qualche azione di rappresentanza. Bisogna che si capisca chi sono i nuovi soggetti che la formano, quali sono le loro necessità, quale la loro dimensione esistenziale e in quale modo sia possibile rispondere ai loro bisogni, al di là di qualche frase ad effetto e del sentimentalismo nostalgico delle grandi occasioni. Quest’analisi non può prescindere dalla presa di coscienza che i temi della subordinazione, dell’efficacia dei diritti per tutti, per quanto abbiano assunto connotati nuovi e siano tristemente passati di moda, devono tornare ad essere affrontati senza remore e senza paura. Altrimenti anche i temi dei doveri, delle responsabilità individuali, almeno altrettanto necessari, perdono completamente senso.
In questi anni su questo piano il Partito Democratico ha fallito, bloccato dallo sterile dibattito al suo interno che si risolve sempre in una specie di sfida alla lottizzazione tra correnti per la monopolizzazione della linea politica; ha fallito perché ha voluto fingere di essere nato senza storia, di essere di tutti finendo per essere di nessuno; ha fallito perché non è stato in grado di elaborare una linea chiara in nessuno dei grandi ambiti della politica nazionale, dall’economia alla politica estera. Il Partito Democratico non solo non ha un programma ma, peggio, sembra non avere un progetto. E in effetti è difficile che si riesca ad avere una progettualità rivolta al futuro se non si è ancora in grado di fare i conti con il proprio passato. Pier Luigi Bersani ha sostenuto che in un ipotetico Pantheon politico metterebbe Giovanni XXIII. Questo dà il senso dello smarrimento, e anche dell’assurdo del dibattito attuale. È banale quanto lecito domandarsi quale lezione abbia colto dalla propria storia un uomo che si è formato politicamente nel Partito Comunista che in quel periodo fu di Ingrao, di Amendola, soprattutto di Berlinguer e per quale ragione reputi necessario svincolarsi da quella storia con tanta superficiale noncuranza.
In Francia un Pantheon ce l’hanno sul serio e, in tutta la sua grandezza, nella sua magnificenza neoclassica, conserva le spoglie dei suoi Voltaire, Rousseau, Jaurès. Quel socialista, quell’umanista di Jaurès.
Per queste sparse ragioni e anche per una mia opposizione, diciamo, ontologica, all’esistenza stessa del Partito Democratico, su cui non mi dilungherò, ho capito che sostenere uno dei suoi candidati sarebbe, per me, o impossibile (nel caso specifico di Renzi) o uno sforzo troppo grande, almeno in questa prima fase. Non sempre, o quasi  mai, il cambiamento si fa davvero dall’interno.
Non sempre, o quasi mai, si vota sulla scia di considerazioni di réal-politique.

Oppure, Nichi Vendola.
Con molti dubbi, con il timore di un’altra delusione,
Ilaria

giovedì 7 giugno 2012

Tourbillon

" "Perche' non mi mostri quella Parigi," disse, "di cui hai scritto?" Una cosa ricordo: che al rammentare di quelle parole all'improvviso io capii l'impossibilita' di rivelar mai la Parigi ch'ero riuscito a conoscere, la Parigi degli arrondissements indefiniti, una Parigi che non e' mai esistita se non in virtu' della mia solitudine, della mia fame di lei. Che immensa Parigi! Ci vorrebbe una vita per esplorarla di nuovo. Questa Parigi, di cui io solo avevo la chiave, non si presta a un giro, nemmeno con le migliori intenzioni; e' una Parigi che bisogna vivere, che bisogna provare giorno per giorno in mille diverse forme di tortura, una Parigi che ti cresce dentro come un cancro, e cresce e cresce finche' non ti ha divorato. "

Henry Miller
Tropico del Cancro

lunedì 7 maggio 2012

Aux armes, citoyens...

Ieri sera Place de la Bastille era un oceano di teste e di bandiere. L'entusiasmo non riassume i sentimenti che animavano quello spazio enorme, quelle persone vocianti, quel miscuglio incredibile e festoso di generazioni: vecchi e giovani uniti, prima di tutto, da un sano ed invidiabile fervore politico e repubblicano. François Hollande, come è noto, è il nuovo Presidente di questa Francia che ha tanti motivi per essere orgogliosa di sé. E in quella piazza si respirava l'aria della storia. La Quinta Repubblica non è più così giovane, dal 1958 sono passati cinquantadue anni e le presidenze di destra sono state interrotte solo dal periodo Mitterand, iniziato nell'81 e finito nel '96. 
Il bisogno del cambiamento in una repubblica matura significa bisogno di alternanza, e deriva da quella coscienza politica che evita la formazione di incrostati,  corrotti sistemi di potere. E la coscienza politica dei cittadini va di pari passo con la serietà delle sue istituzioni, con la credibilità dei partiti e della classe politica. Sotto questi punti di vista la Francia non ha niente da rimproverarsi. 
Quando sono arrivata a settembre tutto doveva ancora iniziare, le primarie socialiste per la scelta del candidato presidente non c'erano ancora state ed un semestre sarebbe passato prima che Sarkozy  ufficializzasse la sua ricandidatura all'Eliseo, Marine Le Pen era cosa nota, ignoravo l'esistenza di Jean Luc Mélenchon. Seguivo i dibattiti politici sui quotidiani e su internet e mi sembrava che la politica francese fosse noiosa e morta, priva di passioni e ripiegata su poche questioni marginali. Una politica burocratica, degli amministratori grigi sfornati dalle Grandes Ecoles. 

Mi sbagliavo, e l'ho capito col tempo, per superficialità campanilistica e per la distorsione causata dall'aver vissuto in un periodo storico mediocre, vergognoso, la politica italiana, da sempre immagine di un eccezionalismo eterno, di una sorta di perenne stato di urgenza e di necessità; una politica aggressiva, movimentata, instabile. Tutto questo per me era sinonimo di interesse e mi illudevo che l'eterno caos della nostra penisola potesse essere prima o poi foriero di una qualche forma di seria di evoluzione e di cambiamento. Mi ostinavo, non avendo sperimentato altro, a non voler vedere il Gattopardo dietro repubbliche che da noi cambiano il nome ma non la forma, non la sostanza dei loro giochi di potere.

In questi mesi di campagna elettorale la politica francese mi ha davvero sconvolta. La sua bellezza sta nella sua onestà, nella chiarezza degli schieramenti politici, nelle Sinistre e nelle Destre capaci di riconoscersi in valori distinguibili; la sua grandezza sta nel rispetto che sottende il dibattito così che questo mai si trasforma in rissa sterile, animalesca, anche nelle prese di posizione più dure, anche nei discorsi più appassionati, nelle manifestazioni più indignate. La Repubblica, qui, è in grado di preservare se stessa dalle degenerazioni più estreme, dai pericoli derivanti soprattutto dai successi di un certo massimalismo di destra, incarnato dal Front National. I cittadini sono persone pensanti, critiche e rispettose, perfettamente in grado di distinguere i discorsi politici dal luogo comune. Dovrebbe far discutere  il fatto che il partito di Le Pen abbia ottenuto i risultati più bassi nelle città più grandi e a maggiore densità di immigrazione. Ma il discorso, ora, non è questo.

Ieri si festeggiava la vittoria di una sinistra laica, sociale ed europeista. E' stata la vittoria della normalità un pò pedante di Hollande, dei suoi continui richiami al bisogno di ritrovare un'unità e di condivisione, di coesione sociale e di rispetto della diversità, ma è stata anche una vittoria del Front de Gauche, una sinistra più radicale, critica, ma con la fortuna di aver individuato un leader come Mélenchon, capace di una  coerenza e lungimiranza tali da non poter che suscitare un immediato rispetto. 
La colonna della Bastiglia, ripresa già il Primo Maggio come secoli fa era stata conquistata la vecchia prigione della dissidenza all'Ancient Régime, ieri era invasa ed il simbolismo del gesto era emozionante. Devo aver provato una certa invidia a non poter partecipare del tutto della festa. E ogni sguardo a ciascuna di quelle migliaia di facce fiere, consapevoli, unite, causava in me come un magone per non aver mai potuto festeggiare niente, per non essere mai stata soddisfatta, orgogliosa del mio Stato, fiduciosa nei confronti della mia classe dirigente. Un'Italia persa immaginavo a sud, dove non è possibile riconoscersi in un progetto politico, ma dove anche sbiadisce e si corrode, per disillusione precoce, qualsiasi trasporto civile ed emotivo che forse è anche "un sogno, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita". 

E mentre io mi interrogavo su questo e l'altro mondo, mentre un signore mi regalava una bandiera del Front de Gauche che io cercavo di rifiutare ma che alla fine, felice, ho accettato, dall'altra parte della Senna, alla Mutualité, non c'era niente da festeggiare e Nicolas Sarkozy teneva il discorso della disfatta. L'ho ascoltato oggi, trovandolo di un'alta statura politica e di grande dignità. Sarkozy ha indossato il vestito migliore e a testa alta ha saputo assumersi  l'intera responsabilità di una sconfitta che non è stata un disastro, riconoscendo ad Hollande i suoi meriti, incitando a non perdere la fiducia nelle istituzioni, a continuare a credere nella Francia, nelle sue possibilità, a non cedere ad un controproducente odio di partito. E' stato un discorso patriottico e commovente sulla frase finale "vous etes la France éternelle", come commovente era stato il boato della Bastille al "nous ne sommes pas un Etat quelconque, nous sommes la France!" di Hollande. 
A Parigi vincenti e perdenti cantavano La Marseillaise. Mi domando quando troveremo il coraggio noi, laggiù, di prendere la nostra storia di petto, di chiarirla e di smentirne le revisioni, quando troveremo dei cardini in cui riconoscerci tutti, quando saremo anche noi uno Stato normale, quanti secoli ci vorranno per fare gli Italiani. Rifletto perché qui si capisce cosa sia una Nazione, si percepisce l'imponenza e la sacralità di uno Stato degno di dichiararsi tale e talmente orgoglioso da aver messo in piedi, per celebrarsi in eterno, l'unica chiesa laica del mondo, quel Pantheon dedicato "aux grands hommes la Patrie reconnaissante".
 E' per questa condivisione di valori di base, questa immortale religione repubblicana, che lo scontro mai si trasforma in guerra, che la democrazia non è indebolita né banalizzata da un pluralismo che pure esiste e non viene ucciso nemmeno da un sistema elettorale severo come il maggioritario a doppio turno. 

Una metà dei francesi francesi può festeggiare il progresso, altri possono piangere la sconfitta. Ma questo, qui, non significa  disperarsi; la delusione non diventa desolazione, quell'abbandonarsi al destino che noi italiani conosciamo bene, quando al di là degli uomini resta forte la fiducia nelle istituzioni che rappresentano.
La Repubblica, come una madre, veglia sulla storia; le sue parole le danno un fine, la riempiono di dignità. Chi non sarebbe fiero di un Paese così.



Ilaria


p.s. ci sarebbero da commentare le reazioni allucinanti della classe politica italiana ad i primi risultati delle amministrative. Non ho tempo, quindi mi limiterò  ad un riassunto che renda conto della mia incredulità e perplessità.
Il PDL, ad esempio, sta morendo, i suoi quadri dovrebbero dimettersi in massa; nessuno si assume la responsabilità di una disfatta evidente. Berlusconi, opportuno come sempre, è a Mosca a festeggiare l'ennesimo insediamento di Putin, non una parola di indignazione da parte di alcuno. 
Il PD sopravvive per inerzia e per non aver mai governato, ma a Palermo è stato battuto due volte: la prima durante le primarie, la seconda adesso; non capisco che conclusioni ne abbia tratto. 
Il centro non esiste, ed ancora non ho ascoltato un'autoanalisi.
Grillo avanza e si fa vivo in me un moto di repulsione. 
Si sprecano analogie infondate con la Grecia e con la Francia, come se fosse possibile comparare elezioni amministrative ad altre politiche e presidenziali. In Italia il dibattito è tutto un dissuadere l'opinione pubblica dai temi che bruciano. E' tutto un sopravvivere di una classe dirigente inadatta, culturalmente fragile, politicamente insignificante, moralmente ai limiti del raccapricciante.


martedì 24 aprile 2012

Mélenchon, la Présidentielle, Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità e chi più ne ha...


Poco tempo fa mi è capitato un incontro interessante. Stavo seduta con Giulia sulle scale di Montmartre, come capita spesso nelle serate che iniziano al Rendez-vous des Amis e finiscono con lunghe chiacchierate, discorsi fiume, invettive varie e sfoghi più o meno seri sul corso della politica mondiale…
Dei poliziotti in borghese sono passati in macchina sul belvedere che si affaccia su Parigi, hanno fermato un ragazzo che andava contromano in motorino. Mi dico che questo poveraccio deve avere una sfortuna mortale: non avevo mai visto lì nessuno contromano, tantomeno contemporaneamente al passaggio di una volante. Ma tutto sommato è giusto che lo fermino, le infrazioni sono infrazioni. Solo che i poliziotti ci prendono gusto, tengono lì il ragazzo per una abbondante ventina di minuti. Lui se ne sta fermo, inquieto e a suo modo dignitoso, mentre gli altri aprono la sella, controllano i documenti, rovistano fra le sue cose, lo perquisiscono, lo accerchiano, gli fanno domande. E’ chiaro che oltre ad essere passato contromano non ha fatto niente. Però i poliziotti lo provocano e lui a un certo punto reagisce, alza la voce, gesticola. Parla un francese strano che indica che, lui, francese non è. Io gli vorrei legare le mani e tappare la bocca, dico, lasciali fare il loro lavoro, resisti un po’ in silenzio. Iniziano spintoni e qualche sberleffo, il ragazzo finisce faccia alla volante e schiena ai poliziotti. Il capo di turno sta lì, guarda, ogni tanto fa cenni e se ne rimane impettito nella sua porzione di potere. La serata sta passando anche oggi e c’è qualcosa da fare. Chissà cosa si prova a decidere della gente.


Intanto a noi si è avvicinato un ragazzo. Ci chiede un accendino e di dirgli cosa succede. Gli spiego la situazione, gli dico che secondo me stanno un po’ esagerando ma che tanto va così. Lui si siede, dice che è vero, che va così. Ha la faccia stanca e magra, di persona invecchiata presto nonostante i suoi ventitre anni. E gli occhi spalancati, vivaci e spaesati, in cerca di un senso a cui aggrapparsi,  tradiscono il sorriso accennato della bocca, malinconico e triste, come la postura un po’curva, tipica dell’incertezza e della timidezza. Ci chiede che cosa facciamo, glielo spieghiamo in breve, lui si complimenta, poi si lancia in un lungo discorso sulla sua vita, sulla voglia di andarsene, sull’impossibilità di vivere a Parigi, sull’assurdità di spostarsi nei quartieri ricchi per lavorare e tornarsene ogni sera dall’altra parte dalla città: dal sud ovest al nord est, nel  monolocale che costa uno stipendio, nonostante si trovi nella zona popolare degli ex quartieri operai e industriali. Dice che in Francia non c’è niente da fare, che lui sente sfuggirsi il futuro, ed emerge tra le righe la frustrazione per la segregazione che qui si vede e si vive, per la divisione tra quartieri separati come scompartimenti: guardare la rive gauche da lontano e saperla inarrivabile, inaccessibile come tutte le prime classi. Ci dice di approfittare di Parigi, di restarci e di farci dei soldi, perché qui i soldi ci sono, per poi spenderli “a casa vostra”, dove la vita costa di meno, dove le differenze sociali non sono ancora così marcate. Ha dell’Italia un’idea romanzata, glielo spiego senza approfondire. E poi se ne va. Gli domando se andrà a votare, lui risponde di no, che tanto non cambia niente, che tanto è tutto inutile e sono tutti uguali. Gli rispondo che non è vero e che se vuole che le cose cambino deve anche prendersi la responsabilità di fare un gesto, di esprimersi, che è già un modo per avere del  potere decisionale. Gli dico di guardarsi un po’ intorno, di vedere i candidati, di sentire cosa dicono e di provare a scegliere, perché è importante, scegliere, per non restare senza voce, per non lasciare che siano altri a farlo per noi. Ci pensa un attimo e mi dà ragione, ma chissà se ha votato davvero e poi per chi.

In questi giorni è tutta un’analisi del voto, un avvicendarsi di commenti su chi ha vinto e chi ha perso e come e perché. Io ripenso a quella faccia senza conforto e senza nome, senza riferimenti né fiducia  nel mondo. Quella faccia che una rappresentanza se la merita, quella faccia marginalizzata ed esclusa che nessuno si gira a guardare. E ripercorro con la mente i commenti sulla campagna elettorale ormai passata del primo turno, gli slogan sorpassati, le opinioni sui candidati.
 Su Mélenchon, in particolare, si è discusso,  si è fatta molta ironia. Si è parlato di populismo e di retorica; lo si è fatto passare spesso per una specie di pazzo fuori dalla storia; Hollande lo ha sottovalutato e un po’ deriso, il sarcasmo sul “phénomen de campagne” si sprecava. A Sciences Po, dove tutti la sanno lunga su tutto, Mélenchon si commentava come un animale strano. In almeno due corsi mi sono sentita dire: “ecco, contrariamente a quello che dice nel suo programma Mélenchon… “ Praticamente un estremista, ma anche un falsificatore della realtà. Ed è vero che i suoi discorsi sono sempre carichi di retorica, è vero che la sua critica è stata radicale, estrema.  E’ vero pure che parte del suo programma è irrealizzabile. Ma Mélenchon ha il grande merito di aver incentrato la campagna elettorale sui valori della Repubblica, tutti e tre, a partire da quell’Egalité messa da parte fino a rinnegarla, fino a dare per scontato che sia normale che esistano sempre più facce, come quelle del ragazzo di Montmartre, che nessuno si gira a guardare. E soprattutto ha avuto il merito di mettere in piedi una critica forte, decisa, senza tentennamenti, ai valori incarnati da Le Pen. Laddove lei ha spinto al terrore di fronte alla diversità, alla caccia allo straniero, alla colpevolizzazione aprioristica dell’ “immigrato”, lui ha ricordato l’importanza del meticciato, ha proposto il diritto di cittadinanza per i nati sul suolo di Francia e ha indicato la necessità dell’integrazione come antidoto alle divisioni che creano rancori e violenze; laddove lei si è rinchiusa nelle mura della Francia, in un egoismo tipico dei nazionalismi, lui ha parlato per la gente della Grecia, dell’Italia, della Spagna, del Portogallo, in nome di una révolution civique et citoyenne.

Jean-Luc Mélenchon è stato attaccato soprattutto per le sue prese di posizione di fronte alla globalizzazione ed ai suoi effetti, ed ha spaventato per  il rigido egualitarismo delle sue convinzioni economiche e quindi delle sue proposte. Ed il timore che suscita è comprensibile, la storia ci insegna il pericolo delle degenerazioni agli estremi.  Il limite economico di Mélenchon è quello con cui si scontrano tutti i tentativi di mettere l’economia al servizio delle persone, è la manifestazione del dramma eterno di pensare il socialismo laddove il liberismo pare abbia vinto. E lui dovrebbe limare i suoi eccessi e ragionare realisticamente sul bisogno di conciliare libertà ed uguaglianza, su come, nella pratica della vita vera, mettere insieme la possibilità della realizzazione personale e il bisogno di garantire uno standard di vita accettabile per chi non ce l’ha fatta, o non ce l’ha potuta fare. E’ l’autoanalisi che dovrebbero mettere in atto tutte le sinistre europee.
Eppure mi domando come possa un discorso più incentrato sulla lotta allo strapotere dei mercati che sull’odio di classe, spaventare più di parole che nascondono, ma nemmeno troppo, il nazionalismo dietro i valori della patria, l’odio per il diverso dietro l’inno alla protezione del sangue della nazione. 
Il Front National di cui si canta la vittoria e che solo oggi fa paura sul serio, come è facile fare allarmismo una volta che i risultati del voto sono noti, è stato sottovalutato per anni, e mai attaccato direttamente nemmeno in questa campagna elettorale. Anzi, a destra in qualche modo si è seguita la sua scia, per cercare di attirarne l’elettorato. Non mi pare che qualcuno, al di là di Mélenchon, abbia colto la possibilità, che partiti per definizione moderati e di governo non hanno, di affrontare questa destra estrema di petto.

Ed è stato lui, molto più di Le Pen, ad essere oggetto di critiche e di attacchi, sia chiaro, legittimi, in questa campagna.
Come è facile fare a pezzi le utopie, che per definizione si astraggono dalla realtà, così sembra impossibile smontare discorsi che si appoggiano sull’umanità degli istinti delle persone, così è difficile contrapporre questioni di principio che, al cospetto del realismo estremizzato e della retorica della vita vera, passano per parole vuote, incapaci di dare risposte ad inquietudini e a timori che dei principi, nell’immediato, possono pure fare a meno.

Si dice che Marine Le Pen ha istituzionalizzato il suo partito, e in effetti lei è riuscita a normalizzarne il discorso e la propaganda, a vendere la sua immagine protettiva ed empatica laddove il padre mai era stato in grado di nascondere un estremismo che anche oggi è presente, ma che è meno visibile perché nascosto dietro una faccia di apparente buon senso. “Però tutto sommato non ha torto” è l’atteggiamento tipico rispetto ai discorsi di Le Pen, una reazione istintiva che nasce dai sentimenti immediati, quelli su cui lei basa il suo successo. Solo fermandosi un attimo a ragionare si svela, dietro il suo volto di madre, dietro la fierezza della donna che ce l’ha fatta, l’unione letale e pericolosissima di esaltazione dell’individuo e superpotenza dello Stato, che fa venire in mente senza che ci sia bisogno di una grande preparazione culturale, la retorica del fascismo ancora in incubazione dell’inizio del Novecento.
Il Front National, a giochi fatti, ha preso il 18 percento dei voti. E’ un successo che non si può negare. Ma il fatto che in una campagna elettorale il Front de Gauche sia passato dal 4 all’11, 7 deve spingere ad andare avanti sulla strada che questo partito si è dato, che è quella della lotta all’estremismo di destra prima ancora che al sistema così come è fatto.
La critica sterile e senza argomenti reali di Le Pen ad un establishment fatto da tutti all’infuori di lei, non è paragonabile allo stile di Mélenchon, che nell’idealismo del suo pensiero se ne sta con i piedi piantati per terra e sprona alla battaglia quotidiana per la giustizia sociale, riconoscendo però senza ricatti e senza remore la necessità che la sinistra tutta, pur non condividendone l’intero programma, sostenga Hollande al secondo turno. Questa è una presa di posizione seria, che indica un certo distacco dal personalismo e dal populismo di cui pure è stato accusato. 
Mélenchon non è un pazzo, è l’esponente di una sinistra che si interroga tra limiti e difficoltà su come rispondere alla crisi, senza appiattirsi su posizioni conclamate e maggioritarie e senza voltare le spalle ai lavoratori. Non so se tra quell’11, 7 percento di francesi qualcuno, in assenza della sua candidatura, avrebbe votato Le Pen. Qualunque sia la risposta, niente può togliere a quest’uomo venuto da Tangeri il merito di essersi contrapposto direttamente ad una destra lasciata per troppo tempo indisturbata, svelandone le incoerenze e le mistificazioni, contrapponendo ai sorrisi bonari e ingannevoli, una faccia scavata, segnata dalle rughe, percorsa dalla vita.

Ilaria, molto meditabonda, molto perplessa, molto boh.

p.s.
Leggo con tristezza e con rabbia che i fascisti a Roma usano La Locomotiva di Francesco Guccini per i loro manifesti contro il 25 aprile.
Mi piacerebbe capire se, a loro parere, ad i repubblichini di Salò (che senza problemi ,né di coscienza né di interesse nazionale, hanno contribuito direttamente a stermini e persecuzioni  di massa che non sono solo responsabilità dei nazisti),  si adatti anche questa frase, tratta dalla stessa canzone:

“ma un’altra grande forza spiegava allora le sue ali
parole che dicevano gli uomini son tutti uguali”

Potreste farvi un’analisi di coscienza, se solo l’aveste. 

giovedì 8 marzo 2012

“...Sognano di navigare ma non è vero”





Un paio di settimane fa seguivo una lezione di Labor Economics in cui si parlava di istruzione e lavoro. A cosa serve andarsene in giro per il mondo, cercare università prestigiose, accumulare titoli di studio, (al di là di una eventuale realizzazione personale) se non per avere maggiori possibilità di trovare un lavoro e minori possibilità di perderlo in modo ingiustificato? La formazione è un modo per diventare lavoratori tutelati. Certo che questo ragionamento sembra un po’ irrealistico se ci si guarda intorno, però è così e ricerche portate avanti dall’OCSE confermano questo dato. Il mio professore ci ha quindi sottoposto una serie di grafici in cui si analizzava proprio la relazione tra grado di istruzione e possibilità di perdere ingiustificatamente il proprio posto di lavoro.
Il grafico più generale metteva in luce una situazione rosea, che suffragava l’ipotesi dell’istruzione come segnale di produttività e come tutela per la propria condizione di lavoratori. Peccato che le statistiche generali non dicano molto, non considerando per definizione le differenze, spesso sostanziali, tra gli individui del gruppo preso in analisi. E così scendiamo nel dettaglio, guardiamo le statistiche per gli uomini e per le donne separatamente e prendiamo in considerazione, nei due campioni, gli individui in possesso di un titolo di laurea magistrale. La realtà ci si palesa come una brutta sorpresa davanti ai nostri occhi di studenti talmente presi dall’ideale dei modelli da perdere del tutto il contatto con la vita vera. Livelli medio alti di istruzione garantiscono, nel mondo del lavoro, una tutela per i maschi. Al contrario, avere o meno una laurea magistrale offre una minima garanzia di stabilità lavorativa per le donne. In pratica, se sei femmina, al di là della tua produttività e dell’efficacia dei tuoi studi, sei molto più esposta al rischio di essere licenziata senza ragione apparente. Bello. Quel grafico mi sembra la scoperta dell’ovvio, eppure il  mio professore sembra sorpreso. Secondo me finge perché io quella che lui chiama “inspiegabilità del dato” non la vedo proprio. Io credo che lui la risposta l’abbia ben chiara. È uno in gamba. Chiede però a noi di intervenire, di spiegare secondo noi perché c’è uno scarto così grande tra uomini e donne.
Una ragazza americana interviene con una motivazione che suonava così: gli uomini lavorano in più ambiti delle donne quindi magari acquisiscono più competenze. Cosa? Io stavo giusto alzando la mano, ma ascolto la risposta e sento che mi sto incazzando, quindi me ne sto zitta. Mi dico che non mi va di passare per la femminista di turno, chissà perché poi. Ad ogni modo io ero e rimango convinta che le donne siano più esposte a licenziamenti improvvisi e immotivati perché non danno per definizione le garanzie di continuità  sul posto di lavoro offerte invece dagli uomini e perché, soprattutto, necessitano di garanzie che i datori di lavoro non si vogliono proprio prendere il compito di offrire. Quante delle donne considerate per quell’indagine sono state licenziate all’improvviso perché aspettavano dei figli e non avevano diritto a nessun periodo di maternità? Se sei incinta poco cambia che tu abbia un diploma di liceo, la terza media o un dottorato; ci sarà comunque un periodo, per quanto breve se oltre ad essere femmina sei pure stakanovista, in cui non potrai lavorare, quindi per la tua impresa sei un costo, un peso. Forse il tuo grado di istruzione potrà essere una garanzia solo se sarai talmente produttiva da azzerare praticamente, con il tuo stesso lavoro, il costo del tuo periodo di maternità.  Purtroppo non ho prove per supportare questa mia idea, ma credo di non aver sbagliato. Di certo ci saranno anche altre motivazioni che la parzialità del mio punto di vista per ora mi impedisce di considerare, ma questa per me rimane fondamentale.
D’altra parte non mi sembra di aver detto una grande verità altrimenti non svelata. Pratiche come quella delle dimissioni in bianco sono note a tutti come è noto che le donne hanno in media ancor meno probabilità degli uomini di ottenere lavori a tempo indeterminato, come è ancora noto che gli stipendi delle donne rimangono più bassi di quelli dei loro colleghi maschi. La RATP, azienda che gestisce i trasporti urbano di Parigi, ha lanciato una campagna pubblicitaria con manifesti che invadono autobus e stazioni delle metro in favore della parità dei salari tra maschi e femmine. È di grande efficacia, però mi viene da chiedermi se in casa loro questa parità esista.
La sostanza è che l’esistenza di una donna è sempre un’esistenza sdoppiata: da un lato le aspirazioni, il lavoro, tutte quelle attività che derivano dal fatto di sentirsi cittadina e basta, essere umano e basta; dall’altra i ruoli che la cultura e la società hanno imposto nel corso della storia, tanto da essere percepiti come “naturali”. E si tratta di uno sdoppiamento che si vive costantemente e che deriva dal fatto che il ruolo della donna è sempre stato visto in opposizione a quello dell’uomo e, cosa fondamentale, come un derivato di quest’ultimo. La donna è immanenza, l’uomo è trascendenza. Se la donna cerca di uscire da questa condizione diventa “uomo”. Una volta mi è capitato di sentirmi fare un complimento, o almeno la persona con cui parlavo doveva pensarla così. Mi venne detto che io pensavo come un uomo, ovvero da un punto di vista neutrale oltre che globale. Non reagii però la situazione mi sembrava paradossale. Ma quindi pensare come una donna significa pensare in modo parziale? E l’uomo ha invece il controllo dell’assoluto? Evidentemente si, secondo lui. In fondo il pensiero maschile si è affermato per millenni in una condizione di totale monopolio, basata per come la vedo io su una predominanza fisica ancestrale del maschio e sulla capacità di generare la vita della femmina. E i ruoli si sono semplicemente calcificati nei secoli. L’uomo mette la donna nella condizione di fare i figli, la donna li mette al mondo, li accudisce e li cura e fine dei suoi compiti. E su questo dato di fatto che è vero da quando esiste il mondo si è basata la nostra storia. Non starò qui a lamentarmi del fatto che nella democratica Atene le donne la cittadinanza non l’avevano. E però mi delude Rousseau, mi delude la sua democrazia diretta che per esistere necessita di cittadini che possano non dedicarsi ad altro che alla politica, e perciò anche di gente fuori dal contratto e quindi priva di diritti che non faccia che lavorare (gli schiavi) o che badare alla dimensione privata (le donne). Mi delude perché mi porta a pensare allo scarto tra il progresso della condizione umana e il progresso della condizione maschile. Di nessun passo avanti per l’umanità si può parlare se include solamente una parte di quell’umanità. La storia delle donne, rispetto a quella degli uomini, è iniziata con millenni di scarto.
Il maschilismo non è l’opposto del femminismo. Il primo è, oltre  alla conservazione del mondo così come esiste, la negazione di problemi altrettanto reali; il secondo è stato ed è una grande rivoluzione del pensiero, con la finalità alta di riscrivere la storia e progettare il futuro da un punto di vista nuovo, prima inesplorato. Essere femministe non significa, come a volte sostengono spaventati uomini, anche molto intelligenti, con cui mi trovo a discutere, presupporre una superiorità della donna sull’uomo e quindi teorizzare la necessità di togliere gli uomini dalle posizioni di potere per sostituirli con le donne. Il femminismo non è la lotta accanita delle donne contro gli uomini, ma lo studio autocosciente delle cause che hanno portato le prime in una condizione di subordinazione e i secondi in uno stato di superiorità. Il femminismo è un metodo di indagine, è una prospettiva sulla storia ed è un sistema di pensiero, per niente univoco e animato da una grande, vivacissima dialettica. E se si pensa che un pensiero proto-femminista ha iniziato a svilupparsi con l’Illuminismo e che il femminismo si è affermato soprattutto nel Novecento non si può che guardare con ammirazione a quanto, in così poco tempo, le donne hanno fatto e pensato. 
Quanto al problema del potere, poi, ci sarebbe un’altra cosa da specificare. Anche il potere è infatti un concetto che si è sviluppato sulla base della psicologia maschile, come controllo e come coercizione. Il problema non è allora che le donne abbiano la possibilità di occupare posti di potere, diventando quelle che Vecchioni tanto facilmente chiamerebbe le stronze “come un uomo”, ma ridefinire il potere stesso, ad esempio, come “responsabilità”. Le donne non sono a prescindere più buone, calme, docili e remissive degli uomini. Queste caratteristiche non sono dati naturali, ma dati sociali plasmati dalla cultura, dall’educazione e dai modelli che storicamente si sono imposti. Le donne non sono entità venerabili, sono esseri in carne ed ossa e come tali hanno pregi e difetti, di differenziano fra loro, fanno le scelte di vita più disparate. In Relazioni Internazionali, ad esempio, ci si è interrogati su una questione: le donne sono più pacifiche degli uomini? Illustrissimi teorici liberali sono arrivati a sostenere che le donne non occupano posizioni di potere in ambito internazionale perché sono troppo riflessive rispetto ad un contesto che è al contrario selvaggio e violento. È la scusa patetica del “ti lascio perché non ti merito…”. Tante ricerche hanno invece messo in luce non solo l’assurdità di una tale risposta, ma l’insensatezza della domanda. Se le donne come alti dirigenti siano più o meno violente degli uomini  non ci è dato sapere. I casi di Capi di Stato o di Governo donne che hanno affrontato crisi internazionali anche violente sono infatti meno di dieci, un numero un po’ misero per farci un’analisi statistica. Il problema che bisognerebbe considerare è un altro e cioè, in che modo il livello di parità di genere in uno Stato influenza anche le sue scelte in ambito internazionale? Altre ricerche confermano che gli Stati più equi sono anche i più pacifisti. E questo è quanto. Nel senso che il problema delle donne non è proprio quello di mettersi a giocare a fare gli uomini, ma quello di progredire come soggetti di pari grado rispetto ai maschi. Il progresso delle donne è il progresso della società; quando i gruppi che chiamiamo minoranze solo perché sono subordinati ad un gruppo dominante si emancipano, ecco che si verifica il progresso, quello vero, quello di tutti.
Ora il problema è quello dell’azione e riguarda una pluralità di campi: politico, morale, economico. Le donne dovrebbero chiedersi un enorme “Che fare?”
Le femministe degli anni settanta, che pure tutti indistintamente dovremmo ringraziare, hanno sbagliato, per eccesso di ottimismo, nel considerare le donne come una collettività omogenea e desiderosa di ottenere gli stessi obiettivi perché conscia della propria condizione assoggettata. La storia ha dimostrato che non è così. Per quanto io resti convinta del fatto che essere femministe significhi solo avere del buon senso e una discreta capacità di rendersi conto di ciò che è reale, è ovvio che questa rimane una mia opinione personale ed è anche ovvio che non è universalmente accettata. Le battaglie di “Se Non Ora Quando?” dell’anno scorso in Italia, ad esempio, hanno dimostrato quanto sia difficile portare avanti un discorso femminista in una società in cui il relativismo ha portato all’obbligo di accettare acriticamente qualsiasi atteggiamento se non si vuole correre il rischio di essere tacciati di moralismo. La critica di SNOQ era ad un sistema di potere che si basava non solo su una conclamata predominanza del genere maschile, ma cosa ancor più grave, sull’utilizzo delle donne solo come oggetto dei potenti, scambiate come merce per denaro ad uso e consumo di determinati detentori di poltrone. Il movimento fu criticato a sua volta; si parlò da più parti di puritanesimo, di moralismo, di puzza sotto il naso e di atteggiamento radical-chic di sinistra. È una critica facile e comodissima, basata sul fatto che le ragazze che si erano prestate al gioco del potere erano tutte perfettamente consapevoli e complici e poiché di libera scelta si trattava, allora non era criticabile. Come si risponde all’ovvietà? Uscendo dal relativismo e avendo il coraggio di vedere le cose da un modo di pensare opposto, che metta alle basi il rispetto della dignità umana. La dignità delle donne non è calpestata dal fatto che alcune, forse convinte di essere più furbe, decidano di fare di sé l’oggetto della propria effimera fortuna. Non provo alcuna compassione per chi fa queste scelte, ma nemmeno mi viene da esprimere un giudizio. Viaggiamo su binari diversi. La dignità delle donne è calpestata se il loro ruolo è ridotto a questo e a pochi altri, e se questi vengono presi ad unici modelli di vita possibili; se sono considerate sempre al secondo posto; se quando sono al primo si dice di loro che sono talmente in gamba da sembrare uomini, come se non fosse stata proprio la loro identità di donne a portarle a quelle posizioni; se per raggiungere quel primo posto sono costrette a rinunciare ad una vita privata; se per avere una vita privata devono mettere da parte ogni aspirazione, ogni volontà.
Dalla parità siamo lontani, e non serve un occhio troppo attento per capirlo. I giornali italiani hanno parlato per quasi una settimana di un tatuaggio a forma di farfalla sull’inguine di una donna di spettacolo, questo fatto basta a dare conto dello squallore in cui sguazziamo. Perciò io non credo di avere grandi cose da festeggiare oggi, ma da riflettere c’è tanto. E da riflettere hanno tanto gli uomini.
Se c’è una cosa che il femminismo può insegnare è proprio la capacità di fare dell’autocoscienza uno stile di vita necessario. Certo che voi non avete mai dovuto mettere in discussione voi stessi, chi crede di aver vinto può godere del trionfo, per quanto in modo subconscio, non deve chiedersi perché ha vinto. La storia l’avete cucita e scucita, il pensiero è fino all’Ottocento esclusivamente maschile; il punto di vista dominante è sempre stato il vostro e questo ha fatto sì che diventasse l’unico, oltre che quello Universale, quello valido per tutti (avete mai pensato all’assurdità dell’espressione “Suffragio universale maschile?”).
Perciò non regalateci mimose, non santificate le vostre madri che loro si santificano già da sole. Chiedetevi però quante volte avete detto o pensato di una donna che era una “puttana”, quante volte discutendo con una vostra amica, una conoscente o altro avete creduto di essere portatori di un’idea a prescindere più valida; quante altre volte avete giudicato una donna, o cambiato parere su di lei, perché era “la donna di” un vostro amico, e vi siete invece accaniti contro altre volontariamente non protette da nessuno e capaci di esprimersi in modo del tutto autonomo; quante volte avete dato ad una donna dell’isterica, pensato di una vostra insegnante che era severa perché “è frustrata, non scopa”; pensato che se una ragazza è stata violentata forse se l’era cercata.
Quanti altri errori commessi quotidianamente, senza pensarci in molti casi, ma che se ripetuti in eterno diventano stereotipi che vengono spacciati per verità e che per questo arrivano a giustificare l’inaccettabile. Prendetevelo anche voi il diritto e il dovere di mettervi in discussione, noi ce lo siamo guadagnato al prezzo di grandi sofferenze. Una magra consolazione.
Buon Otto Marzo insomma, nonostante tutto.

Ilaria

p.s. Cari Compagni e Care Compagne di Ateneinrivolta, non capisco il senso di usare l’asterisco al posto delle vocali finali degli aggettivi e dei nomi che usate nei vostri comunicati. Car* compagn* non esiste. Il sesso neutro non esiste, ci sono le femmine e ci sono i maschi. A dover esistere sarebbe il Genere neutro, ma non sarà l’essere interpellate per prime o per seconde a farci fare un’idea della nostra condizione, non sarà l’annullamento delle diversità in un miscuglio indistinto ad affermare la parità; a farlo sarà la valorizzazione delle differenze. Ma questo è solo ciò che penso io.

lunedì 27 febbraio 2012

“Bella, che ci importa del mondo?”

 Ho messo la sveglia alle sette e mezza, e per tutta la notte mi sono svegliata convinta che fossero le sette e mezza. Una nottata strana e poi una mattinata convulsa, di cielo basso e con l’impressione che l’inverno finalmente sia finito. Esco di casa senza cappotto e chiudo a due mandate la porta. Ho lasciato una pentola da lavare. Pazienza, lo farò domani. Metropolitana, aeroporto, colazione, volo. Un’ora per aria come stare su un autobus, senza nemmeno un bagaglio, fatto salvo il mio panico da vuoti d’aria e turbolenze. Giulia, che si fa viaggi intercontinentali da quando è nata, deride le mie invettive variegate ogni volta in cui percepisco la  minima sensazione di non avere i piedi piantati per terra. E questo è essere ansiosi, aver paura molto prima che sia necessario farlo. Ho comprato La Repubblica, tanto per ricordarmi dove sto andando. In realtà leggo solo un articolo su Gramsci, pure brutto e abbastanza inutile a mio avviso, più di pettegolezzo su microscopici dettagli biografici che di sostanza sulla sua opera. Ma tant’è. Atterriamo un’ora dopo a Linate, ed è piena mattinata. Giulia blatera di pizza al taglio e di mortadella e si scaraventa contro il primo bancone di un bar, dove chiede un caffè macchiato, perché in Francia il caffè o è nero e lunghissimo, o è cappuccino con latte a lunga conservazione, o non è.  Io sono ancora stordita, mi viene l’istinto di andare a recuperare la valigia ad uno dei soliti tapis roulant affollati di gente convinta che se non afferrasse il bagaglio al primo giro, quello poi sparirebbe per sempre, risucchiato da uno di quei meandri nascosti degli aeroporti, che sanno tanto di dietro le quinte inaccessibili. Però la valigia non ce l’ho. Ho una borsa che è la stessa che uso per uscire la mattina e andarmene a SciencesPo. Seguo Giulia al bar e il caffè macchiato me lo prendo pure io, e nel frattempo ho già chiesto almeno due “pardon” e “merci”. Poi usciamo fuori e la sensazione che avevamo provato appena scese dall’aereo si moltiplica, si ingigantisce. C’è nell’aria odore di caldo, vento già tiepido e il sole sbatte fortissimo sull’asfalto delle strade. Da quanto tempo non vedevo quell’azzurro? L’Italia agli albori della vita nuova è qualcosa di eclatante, è l’apoteosi della gioia, è il colore che ritorna se stesso dopo le nuvole, la pioggia, la neve fastidiosa che ti bagna le scarpe, quella noia di stagione che è l’inverno. Non ho chiaro dove mi trovo, al di là della nazione evidentemente, e penso che quel Linate in cui mai ero atterrata potrebbe essere vicino a qualsiasi città, Roma come Firenze . C’è solo quella pianura sterminata a ricordarmi la geografia lombarda, rotta dalla mano dell’uomo, che l’ha riempita di grossi cubi di cemento, simboli di un potere monopolizzato e ben nascosto dietro i vetri a specchio. Ma non sembra di stare a Milano. Il ragazzo del tabacchi è simpatico, le persone chiedono informazioni con gentilezza; nessuno nell’autobus pieno e silenzioso che abbiamo preso per arrivare in centro guarda Giulia stranito, quando lei parla al telefono con la sua voce alta ed entusiasta. Ci penso io a lanciarle un’occhiata burbera di quelle mie, come a dire “guarda che qua le persone parlano la nostra lingua, e se urli ti capiscono tutti”. So essere di una pesantezza di cui ogni volta mi pento, ma che almeno ho imparato a riconoscere. Non capisco neppure io perché la guardo così, come se ci fosse qualcosa di male nell’aver preso un aereo da Parigi per stare un giorno in Italia, causa uno degli ultimi concerti della carriera di Fossati. E infatti smetto di fissarla con quel tono censore e mi metto a guardare fuori, Viale Corsica che è un rettilineo infinito che comincia proprio con l’aeroporto e finisce non so dove. Scendiamo a pochi metri da Piazza San Babila, uno dei miei tre punti di riferimento in una città conosciuta a tratti, e per merito o per colpa della mia amica Fra. In giro è pieno di gente e noi siamo già in maniche corte, accaldate dalla primavera o dall’entusiasmo. Giulia ora parla di pasta, io mi lamento perché ci sono in giro bambini mascherati. Ma carnevale non è finito!?!? Porca miseria, il carnevale ambrosiano. Ci buttiamo nel delirio del centro, che altro non possiamo fare. Via fra bombolette di schiuma e tentativi molteplici di  venderci maschere o coriandoli. Cerchiamo un ristorante, che abbiamo voglia di pasta. E intanto cammino e mi rendo conto mio malgrado che forse Milano è bella. Che sarà che oggi lo smog non si sente, saranno questi ragazzini vestiti da arlecchini o questi adulti sgargianti; sarà che è carnevale e la gente è proprio contenta, sarà il sole, sarà l’Italia, sarà  staccare la testa dall’università, sarà pensare a quanto mi sento bene per aver preso quest’aereo da Parigi e quanto sarà bello ritornarci il giorno dopo. Davanti al Duomo ci fermiamo un attimo, sembra messo meglio del solito anche lui. Poi guardiamo La Scala di lato, che la fame è più forte della voglia di fare del turismo. Nel ristorante un’elegantissima anziana e una quarantenne pronta a negare le sue iniezioni di botox ordinano “qualcosa di fresco e leggero” e parlano di “un evento che nasce come concetto di mercatino e diventa expo d’arte”… EH!??!. E’ pure la settimana della moda da queste parti. Ci mettiamo a fumare dopo il nostro pranzo di gnocchi e di ravioli in una piazzetta che sembra Bologna. L’aggettivo bello si spreca, realizziamo che forse la nostra gioia sta diventando melense, quasi sicuramente patetica. E nonostante questo la rivendichiamo, ridiamo di noi. E ce ne andiamo verso il Castello sforzesco e lungo il cammino c’è il Teatro Piccolo. E ancora mi rendo conto che questa città che a priori come tante cose avevo così spesso maltrattato, detestato, insultato, non è brutta né grigia né fredda, affatto. Giulia che ormai mi conosce mi invita a ragionare e a non parlare. “Ricordati che è una giornata particolare, non sarà certo tutti i giorni così. Ricordati che siamo felici per questo microscopico finesettimana. Ricordati che in questo stato mentale avresti amato qualsiasi città”. La voce di una ragione netta, inconfutabile.  
E allora camminiamo nei nostri vestiti francesi e io in quella che Fra ha soprannominato “questa giacca da lesbica”.
Ragiono sulla relatività dello spazio e su come la provenienza influenzi le nostre credenze sui posti in cui stiamo. Milano vista un momento con gli occhi di Parigi è piccolissima e umana; le persone si confondono nella loro diversità, sono una marea viva e vociante di grande imponenza, non appartengono a nessuno stereotipo. Sono gentili, sono scorbutiche, pronte allo scherzo e irascibili. E si snodano come tentacoli lungo le strade, le riempiono dei loro discorsi seri e velleitari. Mi ricordo di quello che avevo letto su Milano nelle pagine di Rossana Rossanda, del suo definire quella città come l’avanguardia d’Italia, il centro da cui le influenze che vengono da fuori si sintetizzano e iniziano a diramarsi a meridione, il punto di contatto con l’Europa e col  mondo. Deve avere ragione perché io sento di stare in un posto che è Italia e basta e che all’improvviso non ha nessuna connotazione. Questo sole giallo non mi sembra così diverso da quello della mia Formia stretta dalle montagne sull’acqua del golfo. E anche quell’odore senza nome, ma che ti fa dire per un secondo “casa”, anche lui è simile. Sento mia madre al telefono per il suo compleanno e la sento per un momento raggiungibile, vicina. L’Italia è troppo piccola perché le distanze che ci sembrano invalicabili esistano davvero. Siamo tutti più simili di quanto non ci piaccia credere, un po’ statici nel nostro proverbiale, atavico campanilismo inventato. Non temo quel miscuglio di individui e non mi sento giudicata come mi era capitato le altre volte in cui ero approdata in questa città, venendo dal sud e dall’adolescenza. Mi sento cittadina di un mondo troppo vasto perché dal mio aspetto si possa riconoscere la storia breve che mi porto appresso. Mi confondo in una folla di individui qualunque e ciascuno a suo modo e mi sento bene.
Incontriamo Fra che si muove nel suo ambiente perfettamente a suo agio e per la prima volta sento di non dovermi nascondere dietro lei, ma di poterle camminare affianco. Chiacchieriamo tra un bicchiere di vino e un attimo di sarcasmo. S’è fatta sera e le luci dei lampioni illuminano adesso le vetrate del Duomo, che noto per la prima volta e che sono così belle. Io e Giulia ci avviamo verso la stazione, un altro autobus e poi il Teatro degli Arcimboldi, che sarebbe raggiungibile a piedi in una passeggiata di trenta scarsissimi minuti, se non l’avessero collegato al centro con quella specie di tangenziale desolante. Al concerto di Fossati vige un religioso silenzio, che io trovo in certi casi controproducente. Mi dico che se fossi un cantante e la gente non cantasse  le mie canzoni ai concerti io un po’ mi deprimerei. Lo ripeto a tutti da due giorni e tutti mi dicono che i concerti di Guccini hanno fuorviato la mia visione delle cose. È possibile, ma io il religioso silenzio non lo rispetto e ci scappa proprio una bella cantata urlata e liberatoria sull’ “e mi sogno i sognatori che aspettano la primavera o qualche altra primavera da aspettare ancora…”.
Fra ci ospita nella sua casa di Monza per la notte. Grace mi fa finalmente le feste. Peli di cane buono, felice. La mattina dopo colazione con due cornetti alla crema e Maurizio che per pranzo arrostisce polli e ci fa un antipasto a base di mortadella che quasi quasi ci commuove. C’è ancora il sole e Monza rilassa, è domenica mattina e le pasticcerie hanno code di padri di famiglia in attesa dei loro bignè; i bar pullulano di vecchi che discutono di Juventus e di Milan. Sembrerebbe davvero di stare a casa, se l’accento fosse tendente al napoletano e non brianzolo. Ma il carattere è proprio lo stesso. Dopo pranzo ce ne andiamo in aeroporto, e nel giro di mezz’ora siamo sull’aereo che ci riporta a casa, in preda a uno schema di Bartezzaghi  che mi pare di non aver visto per anni. Parigi è nuvolosa, e le boulangeries sfornano baguettes e pani al burro di ogni tipo e dimensione. Me ne ritorno alla mia Porte de Clignancourt e in un momento di relax e di pensieri affollati mi metto ad ascoltare radio tre. C’è Nanni Moretti, una sorpresa che mi sembra fatta apposta, e che mi fa sorridere. E mi addormento stordita da questi due giorni inconsueti e meravigliosi, fuori dal tempo davvero. E stamattina mi sveglio e fuori c’è il sole ed è forte, l’aria è pulita e se non vedessi qui vicino la fermata della metro e se la gente non parlasse questa lingua meravigliosa che è il francese, sembrerebbe proprio di stare a casa. E a casa ci sono; la mia ennesima casa fra le tante che ho vissuto, questo crocevia di boulevards, questa pianura interrotta da una punta sola, questo mare di palazzi eleganti, questa Babele di kebab. E di pane e salame. 

mercoledì 22 febbraio 2012

Lettera apertissima, o le risposte che non ho dato

Non ho seguito un consiglio che mi è stato dato; quello di evitare di pensare a determinati discorsi con cui sono stata inondata per non distogliermi dal mio raccoglimento amendolian-fumatore. Non fumo tabacco pensando ad Amendola, non mi diletto a spendere tempo coltivando una presunta profondità che non mi appartiene o che, se mi appartiene, con un atteggiamento di chiusura o di banalissima, comunissima riflessione, non può che restare uno sterile accumulo di nozioni. Però in questi giorni ho fumato tabacco pensando alla società, al perché la ritengo così importante, al perché sono di sinistra, al perché vado affermando il mio amore per Parigi giustificandolo con il fatto che qui ci si sente inosservati. Soprattutto, in questi giorni ho fumato tabacco insultandomi in silenzio per non essere riuscita a rispondere a nessuna di queste domande, quando mi sono state poste, e per essermi sentita la chiesa su cui un simpatico individuo ha defecato. E la risposta qui è facile. Non mi sento a mio agio davanti al plotone di esecuzione. Non è rilassante partorire risposte sapendo di dover pesare ogni parola perché di ogni tua affermazione verrà messa in risalto la contraddizione rispetto a qualcosa che avevi affermato poco prima, o l’assenza di una base valida su cui fondarla. Si genera in quel caso il meccanismo mentale che per anni mi ha portata a non fare mai una domanda a lezione, a non intervenire mai in un dibattito; quello che ti porta a ragionare talmente tanto su una cosa intelligente da dire per non sfigurare, che le plausibili conseguenze sono solo due: o viene alla luce il pensiero più inutile che la mente umana abbia mai creato, o stai in silenzio in una completa,benché apparente, mancanza di idee. Ora, io non sto certo qui ad accusare nessuno di essere un plotone di esecuzione, potrei essere io a sentirmi il condannato in modo del tutto ingiustificato, o per una paranoica mania di persecuzione. L'ardua sentenza, sempre, ai posteri. E’ sempre una questione di percezioni e di punti di vista. E il mio punto di vista mi ha portata più volte a chiedermi, in una conversazione (leggi monologo) in cui mi sono imbattuta qualche giorno fa, se l’interesse del mio interlocutore fosse conoscere quello che pensavo su determinati fatti, farmi rendere conto dell’abisso di ignoranza in cui, a suo modo di vedere, vegeto, oppure testare la mia progressione intellettuale (paroloni, ma è per rendere l’idea) per capire se avesse davvero avuto senso parlare con me e se, nel caso, avesse senso parlarci ancora. Delle tre, l’ultima mi sembra fuori da ogni dubbio la più veritiera. E anche la più assurda. Dal mio punto di vista, è chiaro.
Detto questo non vedo nessuna contraddizione nel fatto che contemporaneamente affermo di stare bene a Parigi perché qui si può stare anche da soli e di assegnare grande importanza alla coesione sociale.
Nella prima affermazione c’è niente altro che un bisogno di indipendenza e di libertà. Non siamo nati per mettere tutta la nostra vita in comune con gli altri, ma anche per poter essere indipendenti, in mezzo agli altri. Si è liberi anche quando non si sente lo sguardo e il giudizio della gente addosso, condizione che chi viene dalla provincia capisce perfettamente. Si è liberi quando si è ignorati perché ciò significa che la gente che ti circonda ha imparato ad accettare comportamenti e stili di vita diversi dai suoi come dati di fatto su cui non si ha il diritto di sindacare, perché rientrano nella sfera della vita privata di ciascuno. Questo non significa volontà di mettersi al riparo dal mondo, ma mischiarsi, con le proprie personali e opinabili peculiarità, in una gigantesca  moltitudine di individui liberi di essere come vogliono.
La coesione sociale è un’altra cosa e rientra nell’ambito pubblico. Come gli uomini non sono fatti per mettere tutta la loro vita in comune, non sono neanche fatti per passare tutta la loro beata esistenza in uno stato di autarchia totale, ad eccezione del Nanni Moretti dei tempi prima dell’oro. E questo lo dimostra una banale constatazione della realtà. Perché dovrebbero esistere le famiglie, o i gruppi di amici? Perché altrimenti l’uomo dovrebbe sentire la necessità di consultarsi continuamente con i propri simili, di ricercare punti di vista diversi oppure di omologarsi per sentirsi appartenente ad un gruppo di pari? E tu dirai, non lo so ma forse lo dirai, che la socializzazione primaria e secondaria  non rispondono a dei bisogni individuali, ma servono ad indirizzare gli individui verso comportamenti accettati dagli altri e che non sono naturali, ma costruiti perché utili al modo in cui la società stessa funziona e si riproduce. Ed io con questo fatto sono solo parzialmente d’accordo. Perché se è vero secondo me che la società, per sopravvivere nelle sue forme, richiede persone in grado di stare fra gli altri in un modo a lei funzionale, è pure vero secondo me che lo stato di natura di Locke è completa finzione e che gli uomini non hanno dato vita agli stati ed alle società perché erano talmente buoni, bravi e razionali da farsi venire in mente un’idea ancora più buona, brava e razionale e capace di rendere ancora più efficace il godimento di diritti già esistenti nello stato di natura. Io credo che gli uomini abbiano dato vita agli stati ed alle società per una volontà di controllo reciproco, per sentirsi tutelati da ogni rischio di prevaricazione, per poter vivere pacificamente in mezzo agli altri, condividendo i beni pubblici e lavorando per guadagnarsi quelli privati, finalità per cui è valsa la pena rinunciare ad un pezzo della propria autonomia. La società plasma gli uomini ma è fatta di uomini e da loro a sua volta è plasmata per rispondere ad interessi che loro hanno e che percepiscono come fondamentali.
E qua veniamo alla giustizia sociale. Perché dovrebbe avere così tanta importanza? Perché solo se tutti hanno la possibilità di scegliere e di lavorare per costruire la vita che hanno in mente e che desiderano allora tutti sono liberi. Libertà non è libertà dagli altri, ma libertà con gli altri. E se è vero, come diceva Simone Weil, che la si raggiunge solamente con l’alienazione del lavoro che ci dà la possibilità di vincere noi stessi, è pure vero che se una gran parte delle persone non fa che vivere in uno stato di alienazione fine a se stesso perché privo di qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni proprie o di chi verrà dopo di lui, allora vivere non è che una ripetizione automatica di gesti  senza alcuna finalità per sé, fino al giorno in cui si muore. Un minimo di giustizia sociale è necessario per garantire a tutti il godimento della propria umanità. E allo stesso tempo dal momento in cui si sta in delle società fatte di regole che abbiamo scelto di mettere in piedi, visto che nessun dio le ha imposte,  allora quelle regole vanno rispettate. Dal momento in cui mettendosi con gli altri gli uomini hanno rinunciato ad una parte della loro autonomia, non è più un comportamento sociale quello dell’individuo libero da ogni restrizione rispetto a quello dell’altro talmente costretto dal suo stato di necessità da diventare schiavo di tutto. A quel punto nella società non ci stiamo più. A quel punto siamo in una specie di grosso stato di natura, fatto di diffidenza reciproca, di solo individualismo e ancora di lotta e di prevaricazione, a cui i soggetti più potenti hanno dato una parvenza normativa mettendo delle regole a privilegio di se stessi e a discapito della maggioranza, spacciandola per una condizione utile a tutti.
Per questo mi sento una persona di sinistra, perché gli uomini stanno insieme per tutelarsi insieme ed è possibile farlo solo se tutti hanno la possibilità di emanciparsi dalla propria condizione di partenza. L’uomo alienato non è uomo; l’uomo schiavo non è uomo.
Bene, ho risposto all’interrogazione con questo mediocre compitino che tutto sommato ho affrontato per il gusto che ho di mettermi in discussione, di espormi al giudizio o, che ne so, in modo masochistico al pubblico ludibrio. Ma i commenti non li temo, la sensazione di partecipare alla mia derisione mi infastidisce decisamente di più.
Con la coscienza apposto, i puntini sulle “i” e tante scuse a poveri ,immensi pensatori da cui derivo le mie idee,

Ilaria

p.s.  Ora potrò dedicarmi di nuovo ad altre e più basse attività, tipo leggere Memorie di Adriano. Così poi potrò fumare tabacco anche pensando a Yourcenar.

domenica 19 febbraio 2012

Monologhi

Perché? E’ la domanda che fanno i bambini, mossi sempre dal desiderio di conoscere il motivo, di capire in senso. E’ la domanda figlia della curiosità e per questo potrebbe essere ripetuta in eterno, fino a che c’è qualcosa da capire, un particolare non detto, un aspetto poco chiaro. E nelle risposte c’è sempre qualcosa di sorprendente, di nuovo che sa di rivelazione. E in quella rivelazione ancora un dubbio su cui si è glissato, coscienti dell’impossibilità perlomeno momentanea di scioglierlo. E su quel dubbio, su quel tono ora più basso della voce, sul momento di incertezza si inserisce di nuovo la domanda. Perché? Ripetuta fino allo sfinimento, fino a che tutto sarà compreso in poche frasi chiare, immediate.
Ma l’immediatezza la si perde per strada, appena si intuisce l’importanza del silenzio, la necessità della riflessione e si sceglie di coltivarla in contrasto alla facilità con cui si spacciano ovvietà per verità, punti di vista soggettivi perché storicamente e socialmente determinati, per dati di fatto inconfutabili. E se poi è un adulto ad incalzarti coi perché, con domande che non vogliono arrivare a capire come la pensi partendo dal presupposto che ciò che pensi ha già un suo valore nello sforzo che sta dietro la formazione dell’opinione, ma metterti in difficoltà fino a farti dubitare della validità del tuo pensiero, fino a criticare l’assenza di radici del tuo sistema di valori, per svelare che il tuo non è forse neppure un pensiero, ma una massa di credenze nemmeno coerenti, di assunzioni para-metafisiche incollate come un brutto puzzle per far sfoggio di una presunta, inconsistente profondità, allora arrivi alla resa. E ti ritrovi stanca, svuotata. L’umiliazione la percepisci perché ci tieni a confrontarti con le persone,  a maggior ragione se le ritieni meritevoli di stima, e a prendere spunto dai pareri che ti vengono offerti e capire se anche tu puoi arricchirli di un aspetto che non era stato considerato. Il confronto è per me condivisione, regalo reciproco. Ma dal momento in cui da scambio di prospettive ugualmente dignitose si passa all’univocità del sermone, il confronto diventa indottrinamento, prevaricazione ingiustificata. E mi sembra di trovarmi davanti il micro-potere di Focault. E me ne allontano delusa, e pure convinta che la demolizione sistematica non sia il modo più valido per mettere in discussione l’interlocutore o il discepolo di turno, a seconda di come il nostro ego ci consiglia di considerarlo, solo il più facile per non svelare se stessi, dietro l’aggressività colta delle proprie motivazioni, delle raffiche di domande, dei tentennamenti di cui solo agli altri si chiede conto, ingessati sul pulpito delle proprie soggettive certezze oggettive, o della propria superbia.

Ilaria

mercoledì 8 febbraio 2012

Il più caro, il più fedele.


Mi avevano detto che non stava più bene. Tredici anni come averne addosso oltre cento, sarà stato stanco di correre nel giardino, di annusare l'odore dell'aria e ululare alla luna facendo sognare a tutti noi, pochi, che lo guardavamo, parentele con lontani lupi romantici, solitari. Me lo ricordo bene quando è arrivato. Io e Carmine non eravamo che ragazzini, otto e dodici anni e tanto tempo a pregare e implorare la presenza di un cane. Mia madre e mio padre non sono mai stati dei cinici, così quando seppero di una cucciolata, non credo ci pensarono su tanto a lungo. O forse ne discussero per bene, ma la prima ipotesi mi piace di più, e mi sembra veritiera. Andammo tutti insieme in questa campagna piena di cuccioli bianchi, tutti dolci, tutti teneri, tutti con quegli occhi nocciola di animali vispi, di vite appena nate, entusiasti di correre in un recinto, di saltarsi addosso, di mordicchiarsi l'un l'altro. Non riuscimmo a decidere, mi ricordo. E mi ricordo che andando verso la macchina uno di quegli esseri bianchi e pelosi ci rincorse per un po', col suo trottare impacciato di cucciolo. Il cane che sarebbe diventato il nostro Smile aveva scelto noi quattro, togliendoci dall'impaccio. Non era certamente il cucciolo più aggraziato, con quella coda alla fine tutta spellata, che per curarla ci volle la santa pazienza di mia madre e non so quale unguento miracoloso da spargere per farci ricrescere i peli. E i peli crebbero piano piano, divenne presto un cane bello, elegante nel suo meticciato, nel suo bianco macchiato. Ma che razza è? Un incrocio tra un maremmano e un pointer. E che cane è un pointer? Un cane da caccia, che io non avevo mai visto. Però mi avevano detto così e così io ripetevo a tutti quelli che mi ponevano l'odiosa domanda. Cosa ci sarà stato di tanto  interessante nel conoscere la razza di un cane. E' lui che bisogna conoscere, è il carattere, sono le attitudini, le passioni, i giochi prediletti, le voglie irrefrenabili, i vizi. 
Smile si chiamava così per un'idea di mia madre. Guardate, ci diceva, sorride. Sorrideva quando tirava fuori la lingua, affaticato da qualche corsa o dal caldo, e le labbra gli si incurvavano in una smorfia allegra, beata di goduria autentica. Forse tutti i cani sembrano sorridere quando fanno così, però Smile sorrideva di più. L'avevamo deciso noi, tutti presi dall'onorare degnamente quella nuova presenza in famiglia. Sorriso, che secondo noi si doveva tradurre in inglese con "Smart". L'errore durò un paio di giorni; un fido Garzanti italiano-inglese ci aiutò a ravvederci.
Il giorno dell'arrivo di Smile a casa, lo portò papà, sentivamo che era tutto pronto. Doveva avere una poltrona come cuccia(prima di una lunga serie di mobili devastati), due ciotole, che all'epoca erano una blu e una verde acqua, e un collare. Il collare lo ricordo ancora, era di quelli ad imbragatura, non sia mai a fargli male al collo per tirarlo, mi pare verde e forse con dei pupazzi disegnati. Ci mettemmo un po' a capire come usarlo, e comunque quel collare non durò. Smile smise presto di essere un cucciolo ed anche di essere un cane obbediente. I miei hanno usato ogni tipo di guinzaglio, e non ha mai smesso di tirare nelle passeggiate sul lungomare, fino a quando la stanchezza ha preso il posto della voglia di avventurarsi per pali e palme, marciapiedi, panchine e qualsiasi cosa si ergesse in verticale, alla ricerca del posto adatto per farsi una sana pisciata. Il posto adatto era il posto qualunque. Dicevo che il giorno del suo arrivo ci sentivamo preparati, da veri naif. Chiamai il mio amico Claudio per festeggiare l'evento, presi Smile, lo misi sulla poltrona e lo coprii con un plaid. Era settembre o ottobre, doveva morire di caldo. Si divincolò presto, io mi resi conto allora che non si trattava di una bambola, e che quell'arnese peloso e zampato avrebbe potuto mettere la sua volontà contro la mia. L'ho amato molto per questo. Ad un certo punto di quel glorioso pomeriggio mamma uscì, e doveva essere fuori anche papà. Smile ci mise di fronte all'evento a cui non eravamo preparati; di fronte allo stupore di mio fratello Carmine e Claudio e al mio, fece la cacca. Il "Che  fare?" ci assalì. La risolvemmo facile, paletta, scopa, scottex e una pezza. Col tempo avremmo imparato. 

Da quel giorno Smile ha accompagnato le nostre vite, mai sullo sfondo, sempre come la prima traccia di casa, come un fratello, un figlio, un amico. Croce e delizia di chiunque varcasse la porta di casa nostra. Quanto a me, ho sempre messo regole chiare con i miei amici: non osservatelo, non fate i simpatici, prima o poi sarà lui a venirvi a cercare. Ha fatto così con tutti tranne che con un tipo che aveva infranto la regola d'oro. Si è beccato una nasata in fronte, e secondo me Smile aveva tutte le ragioni del mondo. Non si invadono gli spazi vitali altrui per soddisfare il proprio ego.
Mamma, fra tutti, è quella che l'ha curato di più. Me la ricordo bene, per un lungo periodo infernale, svegliarsi all'alba con qualsiasi clima per portarlo a spasso. Mi ricordo i veterinari e le vaccinazioni e i microcip. Mi ricordo quando l'abbiamo portato a farsi la doccia in una specie di centro animali. Non l'avevo mai visto così ridicolo, ricoperto di spuma che lo faceva sembrare finalmente un maremmano, tanto ne aumentava il volume, e poi passare terrorizzato, e coda fra le zampe di rigore, sotto un phon di dimensioni macroscopiche che soffiava così forte da farlo sembrare un cane nella galleria del vento. Io e mamma ridemmo molto, lui restò traumatizzato. Ha odiato il phon per tutta la vita. Era una buona arma per allontanarlo dal bagno quando ci si asciugava i capelli e lui si metteva là, l'onnipresente, senza essere stato invitato. 

Quanto a mio padre, credo Smile nutrisse per lui un grande rispetto. Non che fosse particolarmente ubbidiente, questa non è mai stata la sua indole, però in sua presenza si è sempre comportato in maniera composta, direi educata. Ogni tanto quando papà sonnecchiava sul divano Smile ci si arrampicava anche lui. Si sedeva, gli chiedeva qualche coccola sfiorandolo un po' con la zampa. Papà si lamentava come è nel dna dei D'Angelis, metteva il muso lui e non il cane, e poi lo accarezzava. Ha sempre dimostrato il suo affetto così, uno sbuffo e poi il cedimento inevitabile all'amore. A volte gli piazzava la bianca testa pelosa sulle ginocchia, papà lo accarezzava con le sue mani pesanti. Erano comici a vedersi. Intenerivano.C'era un periodo, che mio padre e io ci eravamo fissati con la raccolta delle noci in giardino. Sarà durato un mese? Non lo so; non so neppure se mio padre raccogliesse noci anche prima della mia età della ragione. So per certo che Smile se ne stava baldanzoso a vagare per il prato mentre noi due a schiena curva, e io con grande gioia, raccoglievamo noci da terra. Era stancante. Smile arrivava un attimo dopo. Le rubava e se le portava via come chissà quale premio. Poi le leccava con cura fino a farle belle lucide, solo a quel punto triturava il guscio e ne assaporava metodicamente il frutto. Amava le noci come amava le bucce di mela e svariati altri frutti; ai cani piace mangiare bene e mi pare di aver capito che ognuno ha il suo cibo prediletto. Smile è stato cresciuto a croccantini, per una questione di salute oltre che di praticità. E quando gli toccava un po' di pasta in avanzo, o il pane, o gli innumerevoli premi che dovevamo scambiare con lui per ottenere in cambio due secondi di obbedienza, era sempre una festa, una grande conquista. Una volta per il suo compleanno gli avevamo preparato apposta della pasta, gli avevamo messo un cappellino fluorescente di carta e gli avevamo fatto delle foto che ancora ho conservate in una delle mie scatole dei cimeli, mentre lui ingurgitava al suono di tanti auguri a te. Mi pare di ricordare che Carmine avesse cercato di opporsi a quella che doveva sembrargli una tortura, noi altri ne eravamo felici. L'idea del cappellino era stata mia, mi sentivo gagliarda, un genio. Smile era in grado di divorare piatti di pasta ad una velocità impressionante e con una tecnica degna di nota. L'azione si svolgeva così. Lui, pietoso ricattatore, era fuori dalla cucina in attesa. All'apertura della porta si metteva come sull'attenti, e quando il piatto di plastica con dentro la pasta veniva calato dall'alto, come una manna dal cielo, lui col muso lo poggiava al muro per non farlo scivolare e giù ad ingoiare, così veloce che dubitavamo riuscisse a respirare nel frattempo. Una volta impiegò qualcosa come 12 o 15 secondi. Non lo dimenticherò mai, quel momento, come tutto il resto. Ha sempre seguito mia madre in ogni suo passo ed è sempre stato al corrente di tutti gli orari delle nostre giornate. Tutti, tornando a casa, l'hanno trovato ad aspettare sul balcone, o sul pianerottolo, o dietro una finestra. Tutti noi siamo stati onorati della sua gioia, del suo scodinzolio prima vispo, poi molto serio, fino a quei flebili accenni di entusiasmo della sua stanca vecchiaia. Tutti noi lo abbiamo percepito arrivare, con il ticchettare del suo buonumore, verso il divano, porgerci il muso per l'attimo necessario a convincerci ad una coccola e poi voltarsi di spalle, a reclamare delle somme grattate sul fondo schiena, che lo facevano impazzire. Tutti noi lo abbiamo visto sgattaiolare in cucina, appostarsi sotto il tavolo del corridoio con il muso a indovinare i nostri passi, o dormire con l'espressione della beatitudine in faccia al vento e al sole delle primavere e degli autunni, per rientrare in cerca di ombra d'estate, di caldo in inverno. E per tanti inverni io e lui ci siamo scaldati insieme. Gli lasciavo la porta della mia stanza appena aperta e lo sentivo, delicato come sempre, salire sul mio letto, fare un paio di giri su se stesso e acciambellarsi ai miei piedi. Le mattine dopo, quando lui sempre prima di me si svegliava, l'acciambellata ero io e lui disteso in tutta la sua lunghezza, da principe quale è sempre stato. Smile ha curato la mia solitudine con quei suoi strani sogni notturni che lo facevano muovere come se corresse su chissà quale prateria sterminata, ha curato la mia paura della morte, della notte, del buio. Mi ha guardata crescere e ha subito le mie torture, e i soprannomi strani che ognuno di noi ogni tanto gli ha dato. Quando Carmine partì per l'università, per Bologna, Smile ha riempito il vuoto che la partenza di un fratello che ti sembra sempre più adulto e lontano, con i tuoi occhi adolescenti, ti lascia inevitabilmente addosso.
Tutte le partenze che hanno contraddistinto quella mia cara casa di irrequieti, Smile le ha riempite con i suoi dispetti di cane, con la sua fiducia indiscriminata di cane. Ed ha evitato per me i vuoti irreparabili, e la tristezza di ogni separazione. E' stato una cura per tutti noi, e una riserva d'amore mai invadente e sempre presente. Andargli vicino a canticchiargli un motivetto e sentirsi osservati da quella sua faccia interrogativa, dai suoi occhi marroni, profondi e buoni, da cui mai è trasparito un giudizio. Neanche quando avrebbe avuto ragione a detestarci per averlo portato in un centro di addestramento nella speranza che diventasse un cane normale. Cosa che, per nostra immensa fortuna, non è mai stato. 

E' stato ai nostri occhi tutti gli animali del mondo. Una lucertola al sole e una gazzella, quando saltava il metro e mezzo di siepe correndo da un cancello all'altro, per abbaiare a un gatto o ad un anziano, categoria da lui sempre ardentemente detestata. E quando saltava la siepe lasciava senza fiato quando, come dice mamma, per un momento restava sospeso nell'aria, le orecchie morbide al vento, l'espressione gloriosa di cane giovane e padrone del suo mondo. E una lepre quando rincorreva altri cani, tutte femmine, sfrecciante intorno alla casa come una meteora. E quando... E quando. Non riesco a quantificare l'amore che provo per lui. Mi sembra impensabile provarci. E allo stesso tempo ricordo con una certa chiarezza ed una dose di panico infantile la volta in cui, entrando nella mia stanza, lo trovai accerchiato dai miei giocattoli. Barbie senza mani, pupazzi sventrati, e una famigliola di quattro delfini segnata dai suoi denti, alcuni senza coda, altri senza occhi. Pensai di odiarlo, poi sono cresciuta e l'ho fatto con lui e quell'episodio all'epoca drammatico è rimasto un aneddoto dai raccontare ai posteri e niente più. Sono cresciuta e Smile ha preso a mangiare le mie foto e i miei biglietti dei concerti. Nulla mi ferì come quel genocidio di giocattoli, lui era già diventato ben più importante del resto. Ci restai invece molto male quando distrusse una pagella della scuola media di Carmine. Rimase miracolosamente intatta la pagina di religione e comunque la trovai una grossa mancanza di rispetto.
Va detto a sua eterna discolpa che io e mio fratello non gliene abbiamo risparmiata nessuna. Raggiungevamo l'apice del nostro sadismo quando inscenavamo delle risse per vedere chi Smile sarebbe arrivato a proteggere. E proteggeva me, con minacciosi ringhi contro Carmine. Il privilegio della più piccola è anche questo.
Smile è stato il nostro cane libero da collari, la nostra ombra e il pensiero eterno nelle nostre innumerevoli partenze. Che avrà provato quel suo cuore tacito nel vederci tante volte fare le valige e andare via? Mi domando quanto e quando abbia sofferto dell'andirivieni familiare, dei viaggi lunghi mesi, del vederci tornare all'improvviso a casa. Non mi rispondo per un senso di colpa che non riesco a trascurare. E che risolvo nell'eterna figura di mia madre, il nostro punto fisso e la pietra miliare di Smile, così stoica nel suo dolore materno, fino all'ultimo respiro. 

E ora mi sento un po' vuota; le immagini che prima scorrevano con facilità si accavallano e diventano come al solito nebulosa di ricordi. Avrò già scritto quello che adesso ho in mente? Sto forse correndo il rischio di ripetermi, in un finale tentativo di catarsi e di espiazione. Nella follia cosciente della non accettazione della fine di una giornata surreale, maledettamente lontana e parigina, che se n'è già andata lasciandone come sempre il posto ad un'altra, senza Smile sulla sua branda che ora so solo immaginare, e io e noi più soli. E tutti sapevamo che stava invecchiando, lo riconoscevamo nella lentezza dei suoi passi, nel corpo come rimpicciolito e spigoloso, nella stanchezza di partecipare ai giochi di Audrey, alle sue puerili, tanto belle, richieste di attenzione. Tutti lo sapevamo e nessuno in cuor suo credo che si sia arreso all'idea. Io meno che mai, con questa stupida scusa della lontananza, con i piedi fuori dall'Italia e un pezzo d'anima lasciato a casa insieme a tanti anni di vita. Io Smile non lo vedevo, se non nelle mie ricomparse opportunistiche, da conquistatrice del mondo che torna ogni tanto a riposarsi; e dunque mi riservavo di sperare. Smile l'ho percepito negli ultimi anni come una parte di me che avrei voluto trascinarmi in uno zaino per il mondo; e ho goduto con lui sprazzi di vita di autentica condivisione. Nessun rimprovero, dal mio primo ritorno dall'università, in un natale di anni fa, era più possibile nei suoi confronti. Era il mio modo per chiedergli scusa per essermene andata, per riaffermare la mia presenza, per fargli sapere che mai sarei stata da una parte diversa dalla sua. E sono passati così i nostri ultimi tre natali e le mie ultime due estati. Con la doppia sorpresa di Fabrizio e di Audrey a riempire ancora le case e le vite. Smile ha visto in Fabrizio un leale capobranco, quando fino ad un attimo prima a comandare era stato indiscutibilmente lui, ed ha accettato Audrey come un grande saggio, le ha concesso una parte dei suoi spazi senza storie, ribellandosi di rado e in momenti di vera non sopportazione. E lei gli ha fatto compagnia con la sua imponenza, quanto era bello vederli dormire insieme, vicini e stretti al termosifone del corridoio, sulle loro coperte usurate e adorate. Quanto era bello tornare a casa e trovarli sul terrazzo. Sempre in attesa, come mi sembrava che Smile avesse aspettato per anni. 
E non riesco a dirmi che è finita, non mi convinco che è l'ora di dormire. Non mi persuade la sveglia di domani se da domani indietro non si torna. Non lo voglio pensare solo, non lo voglio pensare nel vento, con quella rosa del giardino vicina ad una zampa ormai fredda, e che tante spine e radici e terra viva aveva toccato e scavato. Avrei voluto un'occasione ancora, un altro saluto, una carezza alle sue orecchie beige, morbide come quelle di nessun altro cane, al tatto delle mie mani di bambina e ora forse di donna. E fargli fare la faccia del cane esquimese, del cane trasvolatore, del cane pipistrello, del cane con lo chignon. E guardarlo negli occhi già sofferti mentre ancora gli sussurro un ti voglio bene che sa di un addio che non so pronunciare. Mi tormenta l'idea di non averlo salutato per bene alla mia ultima partenza, ed una parte di me non si perdona di averlo lasciato come un oggetto vecchio, alla caccia di un'altra vita da un'altra parte. Avrei bisogno di un'altra possibilità. Forse voglia dell'ennesima conferma del suo amore. Gli umani hanno bisogno di questo, e perciò i cani esistono, pronti a ringraziarci nonostante le nostre mancanze, a perdonarci con uno sguardo o una zampata il nostro altro errore. E quanto sono migliori di noi per questo. E quanto Smile è stato migliore di me. Quanto avrebbe meritato una voce, piuttosto che quell'udito che altro non ha sentito oggi da me che un pianto incessante, una cascata di lacrime, un urlo disperato.


Ilaria


p.s. una dedica per te, poco prima della mia partenza, quasi tre anni fa, per Forlì. 

Smile è una ciambella di pelo  color latte macchiato con poco caffè, è un cane, è una borsa dell’acqua calda. Di inverno, quando il vento umido, tagliente del mare ci viene addosso, quando fa freddo e piove e i nasi diventano rossi e i piedi soffrono ma non rinunciano ad un paio di all star, Smile è l’unico rimedio possibile. La notte, con lui rannicchiato subdolamente ai piedi del letto, non è mai buia davvero, non è del tutto triste, non dà spazio al magone da pensieri irrimediabili, alle ansie, alla paura. Poi Smile si stiracchia, si impossessa delle coperte e le scalda, ti lascia il tuo posto ma esige il suo e se lo prende senza troppa cura. E durante la notte sogna; capita che le sue zampe si agitino in un modo un po’ convulso, magari nell’immaginare spazi sterminati, oppure che russi o sbadigli o che soffi infastidito o impigrito dalla sua stessa stanchezza. All’alba, poi, ti dà il buongiorno  con una zampata sulla spalla, nei casi migliori, su una guancia se hai davvero sfiga. I cani non graffiano volontariamente, ma hanno unghie lunghe, e ogni loro carezza ha la delicatezza di uno squarcio. Essere svegliati da Smile non è piacevole, almeno finchè non apri un occhio, poi l’altro, metti a fuoco e lo vedi. Seduto, col suo muso da segugio mancato a dieci centimetri dalla tua faccia, le orecchie flosce, la bocca piegata in un sorriso perenne, gli occhi pieni, profondi, buoni e la coda a spazzare la polvere del pavimento.