domenica 30 aprile 2017

La testa, le gambe, il cuore

"2017! Perché parlarne adesso? Nel 2017 avremo, che so, 50 anni!"

Dal sedile del passeggero dell'auto di mia madre, Claudio mi guarda sconvolto. "Ilà, il 2017 è tra meno di 10 anni".

Non ho nessun motivo per ricordare questo dialogo, finito in una risata collettiva e isterica, in coda sull'Appia, io alla guida, ognuno una sigaretta in mano e dall'autoradio, come in tutto quel periodo, il testo brutto di "sono un pianista di piano bar...". Eppure ce l'ho in mente oggi, che stando  alla mia notoria inettitudine matematica dovrei avere, che so, cinquant'anni. E mi viene da ridere al pensiero di come ho sempre contato il tempo in base a una misura fantasiosa della distanza, completamente scollata da ogni ordine numerico e sempre invece riferita a quanto mi sembri intuitivamente esotico e inimmaginabile ciò che è in là da venire, remoto invece quanto è già stato. Forse conto il tempo con le categorie dei bambini, con il tanto e il poco, il grande e il piccolo. Chissa se anche i bambini, come me, dimenticano di pensare che esiste un presente.

Allora tra un'ora sono grande, secondo questo mio modo di vedere la vita. Tra un'ora ho ventisette anni e mi scrivo una lettera da sola. Se non mi fosse rimasta un po' di autoironia mi verrebbe naturale compatirmi. E magari sarebbe il caso di farlo sul serio, se immagino Luca e Vito imbellettati al Gran Ballo di non so cosa del Boston College e me qui a casa, che pretendo di studiare Econometria, al termine di una giornata indolente o più sinceramente triste come poche, posacenere d'ordinanza e noodles fritti portati a domicilio. Le dieci di sera e tutto procede con il programmato livello di noia e masochismo. 

A suo modo, l'immagine dei noodles fritti è evocativa. Per anni, imbattendomi nei più vari film americani, mi sono chiesta per quale assurdo motivo i personaggi girassero spesso con dei thermos e mangiassero cibo cinese da scatolette di cartone, in stanze da letto probabilmente appestate da aromi potenti, per quanto buoni, di cipolle e salsa di soia. Oggi ho capito che quello che mi sembrava uno stereotipo irreale è proprio vero: l'America è un posto senza tempo, o dove questo si misura in termini di efficienza, di produttività. E io, che ho girato per mesi col mio thermos di caffè, prima di sfracellarlo al suolo e sostituirlo con una più normale tazza, e che ho mangiato spaghetti fritti in camera mia da una scatola di cartone, studiando cose e pensando che avrei solo voluto scrivere, ecco io sono diventata lo stereotipo che mi faceva ridere da un lato, dall'altro mi inquetava profondamente. 

Il tempo mi manca. E mentre scrivo penso che proprio a sinistra di ciò che sto scrivendo campeggia questa specie di dichiarazione di intenti, o di testamento emotivo, di Miriam Mafai. "Corri bambina, corri, tu che hai buona la testa, le gambe e il cuore". Per tanto tempo e in tutte le stanze di tutte le case che ho abitato, ho portato con me il foglio dove avevo trascritto questo pezzo bellissimo, e tante volte ho attaccato lo scotch dietro la carta sempre più invecchiata, e dallo scotch al muro sulla scrivania o sul comodino, e dal muro ai miei occhi, spesso, quelle parole, quell'invocazione o quell'augurio: corri bambina, corri... Parole lette tanto di frequente da diventare un mantra, che so a memoria ma che oggi mi lascia perplessa. Contrariamente alla favola progressista delle ambizioni e dei sogni e della possibilità reale che si avverino orizzonti idealizzati, oggi vorrei puntare i piedi, immobilizzarmi, avere qualche minuto solo per domandarmi: dove stai andando, bambina, e perché? 

Sono contenta, ma sono anche stanca, sono anche tesa, nostalgica e altalenante. Penso a quante cose ho già fatto da quando sono qui, in questo Paese coi tram troppo lenti e i maratoneti troppo veloci, ed è difficile realizzare di non aver concluso proprio niente, ancora. Non dicono a caso che il dottorato è come una maratona, che bisogna davvero imparare a dosare il respiro, per non cadere a un passo da ognuna delle tante piccole mete che raggiungi più o meno dignitosamente a scadenze costanti e a frequenza media. Ma dosare il respiro richiede un grande autocontrollo, una straordinaria fiducia in se stessi, un certo menefreghismo e una buona dose di pragmatismo, nonché parecchia stabilità emotiva. Di tutte queste caratteristiche non credo di averne alcuna che sia sviluppata anche lontanamente rispetto al livello che sarebbe importante che io avessi oggi, qui. Poco male, insomma, provo a gestirmi con tutto il disordine della mia ansia e il turbinio dei miei pensieri, che mi riportano dal generalized method of moments direttamente alla faccia di Claudio a diciott'anni, dentro la mia macchina, e all'eco delle nostre risate. 

Così decido di fermarmi davvero, seguendo il consiglio che mi è stato dato più spesso, in varie forme, nella mia vita, in definitiva sommamente riassunto dal grande motto di mio padre: prima la salute. Mi fermo e scrivo, e penso alle banalità. Penso che strano avere avuto diciott'anni proprio ieri, e ventidue per un attimo e all'improvviso ventisette. Penso a quella pagina terribile di Julian Barnes, sulla vita idealizzata nelle speranze adolescenziali e gradualmente trasformatasi in una vita tra tante vite tutte molto uguali. Penso all'eroismo a cui ho sempre aspirato e che per troppa paura non ho mai avuto, e a tutte le persone a cui l'ho forse invidiato. Penso a Giulia che sa guardare il suo destino dritto in faccia, ad Armanda che è capace di adattare il tempo alla sua volontà, a Nicoletta che invece nel tempo si incastra e senza mai scomporsi si fa piccola per districarsi tra le reti di mille impegni. Penso ad Alice che ha il coraggio di cambiare tutto, e a Francesca che ha la maturità di sapere perfettamente cosa può cambiare e quando. Penso a Tiziana che al tempo non ci pensa, che il tempo lo vive, con i piedi per terra. Penso allo stoicismo infinito di Berk. E poi penso a me che scrivo e non mi voglio compiangere perché, da una citazione magistrale di mia madre "non è che stai davanti agli altiforni". E proprio mentre ripenso a questa frase mi domando perché nella mia famiglia, saldamente impiantata in una zona del mondo dove il novanta percento della popolazione è impiegata nel settore pubblico e il restante dieci percento ha probabilmente un bar o un negozio di scarpe, sia sempre aleggiato questo mito proletario da grande balzo in avanti.

Mia madre, mio padre, penso a loro più spesso da quando sono all'America. A volte mi vengono in mente delle foto, o dei pezzi di lessico famigliare. Nell'ultimo periodo mi trovo a ripetermi spesso, con le parole di mia madre, che dovrei smetterla di fare il rabdomante di sentimenti, che poi è il volto socialmente accettabile o appena appena colto della figura legendaria del Tafazzi cosmico; altre volte, prevedendo l'arrivo di uno dei miei classici borbottii emotivi, mi dico, con mio padre, che non devi correre il rischio di crogiolarti

Non li sto vedendo invecchiare, frase che farebbe accapponare la pelle a entrambi, con le dovute distanze e differenze. E certe volte mi chiedo se tutta questa lontananza valga proprio la pena, se tutto questo tempo di corsa sopra la vita sia poi usato bene. E certe volte non ho una risposta, certe volte mi dico che non è vero quello che dice Miriam Mafai, mi dico che è giusta la nostalgia del tempo della lentezza e della protezione e che è ingiusta la Storia a non permettere questa lentezza, o a renderla possibile al prezzo della rinuncia a qualche desiderio o qualche ambizione. 

Ma un attimo dopo mi viene in mente che stare qui a biasimare la Storia ha un ché di parecchio immaturo, che alla fine dei conti tutta questa lagna piccolo-borghese magari nasconde un atto di vanità più che un tentativo di fare chiarezza su di me, che forse ha ragione chi con una certa durezza di spirito mi ripete costantemente che la mancanza di tempo is your choice

In fondo non ricordo che esame stessi preparando la sera che Hollande vinse le elezioni cinque anni fa, ma ricordo nitidamente me e Giulia abbandonare i libri nel mio salotto di sei metri quadri, prendere in corsa un treno della ligne quatre, cambiare a un certo punto, ritrovarci à Bastille, incontrare nella massa il classico vecchio compagno francese che mi regala la bandiera del Front de Gauche, ricordo perfettamente tutte le assurde comiche di quella sera di festa. Il commento politico su Hollande me lo risparmio, non è questo il punto. 

Il punto è la vita che passa nel frattempo, che vorrei essere capace di vivere standoci dentro e non guardandola da fuori, il punto è l'orchidea che ho chiamato Stoner in onore del meno eroico degli eroi di tutti i libri del mondo, mio paladino personale e meraviglioso, povero ma giusto uomo immaginario. Il punto è che per quanto maldestramente Luca possa aver spezzato l'unico ramo fiorito di Stoner nel tentativo di passare l'aspirapolvere, nel giro di due mesi lei si è fatta crescere due nuovi rami, su cui ora sbocciano fiori di nuovo all'improvviso. E al di là del fatto che la metafora del fiore è più usurata dell'associazione gabbiano-libertà nelle vecchie canzoni pop italiane, il punto sono io che torno a casa e guardo Stoner, controllo che abbia la luce adatta, la faccio crescere come posso e un po' ammiro questa piccola cosa fragile e immobile, ma pure viva e potentissima.

Il punto è che ho ventisette anni e certe volte me ne sento duecento, come i vecchi che si lamentano di ogni cosa perché non riescono più a capirla, e certe volte me ne sento ancora dieci, come gli anni che avevo quando mio padre mi disse che forse è in te uno spirito cristiano, forse somigli di più a Caterina da Siena che a Dolores Ibarruri. Rido da sola come una scema, pensando a questa scena vera e insensata e alla serietà con cui ascoltavo le parole di mio padre associandole per assunto al Vero, e alla serietà con cui lui mi spiegava il suo punto, convinto che io potessi capirlo perfettamente. 

Allora credo che mi serva quella fiducia di nuovo, la fiducia immacolata dei miei dieci anni, l'idealismo assoluto dei miei diciassette, lo stakanovismo dei miei venti, il coraggio dei miei ventidue, l'allegria e insieme la forza che avevo un anno fa. E mi auguro da sola di trovare tutto questo di nuovo, di riunirmi con tutte le persone che sono e che sono stata, che oggi mi fanno un'infinita tenerezza, che vorrei incontrare con la consapevolezza di adesso solo per dire loro di non preoccuparsi troppo perché, che corrano o no, hanno buone la testa, le gambe, il cuore.