Poco tempo fa mi è capitato un incontro
interessante. Stavo seduta con Giulia sulle scale di Montmartre, come capita
spesso nelle serate che iniziano al Rendez-vous des Amis e finiscono con lunghe
chiacchierate, discorsi fiume, invettive varie e sfoghi più o meno seri sul
corso della politica mondiale…
Dei poliziotti in borghese sono passati in
macchina sul belvedere che si affaccia su Parigi, hanno fermato un ragazzo che
andava contromano in motorino. Mi dico che questo poveraccio deve avere una
sfortuna mortale: non avevo mai visto lì nessuno contromano, tantomeno
contemporaneamente al passaggio di una volante. Ma tutto sommato è giusto che
lo fermino, le infrazioni sono infrazioni. Solo che i poliziotti ci prendono
gusto, tengono lì il ragazzo per una abbondante ventina di minuti. Lui se ne
sta fermo, inquieto e a suo modo dignitoso, mentre gli altri aprono la sella,
controllano i documenti, rovistano fra le sue cose, lo perquisiscono, lo accerchiano,
gli fanno domande. E’ chiaro che oltre ad essere passato contromano non ha
fatto niente. Però i poliziotti lo provocano e lui a un certo punto reagisce,
alza la voce, gesticola. Parla un francese strano che indica che, lui, francese
non è. Io gli vorrei legare le mani e tappare la bocca, dico, lasciali fare il
loro lavoro, resisti un po’ in silenzio. Iniziano spintoni e qualche sberleffo,
il ragazzo finisce faccia alla volante e schiena ai poliziotti. Il capo di
turno sta lì, guarda, ogni tanto fa cenni e se ne rimane impettito nella sua
porzione di potere. La serata sta passando anche oggi e c’è qualcosa da fare.
Chissà cosa si prova a decidere della gente.
Intanto a noi si è avvicinato un ragazzo. Ci
chiede un accendino e di dirgli cosa succede. Gli spiego la situazione, gli
dico che secondo me stanno un po’ esagerando ma che tanto va così. Lui si
siede, dice che è vero, che va così. Ha la faccia stanca e magra, di persona
invecchiata presto nonostante i suoi ventitre anni. E gli occhi spalancati,
vivaci e spaesati, in cerca di un senso a cui aggrapparsi, tradiscono il sorriso accennato della bocca,
malinconico e triste, come la postura un po’curva, tipica dell’incertezza e
della timidezza. Ci chiede che cosa facciamo, glielo spieghiamo in breve, lui
si complimenta, poi si lancia in un lungo discorso sulla sua vita, sulla voglia
di andarsene, sull’impossibilità di vivere a Parigi, sull’assurdità di spostarsi
nei quartieri ricchi per lavorare e tornarsene ogni sera dall’altra parte dalla
città: dal sud ovest al nord est, nel
monolocale che costa uno stipendio, nonostante si trovi nella zona popolare
degli ex quartieri operai e industriali. Dice che in Francia non c’è niente da
fare, che lui sente sfuggirsi il futuro, ed emerge tra le righe la frustrazione
per la segregazione che qui si vede e si vive, per la divisione tra quartieri
separati come scompartimenti: guardare la rive gauche da lontano e saperla
inarrivabile, inaccessibile come tutte le prime classi. Ci dice di approfittare
di Parigi, di restarci e di farci dei soldi, perché qui i soldi ci sono, per
poi spenderli “a casa vostra”, dove la vita costa di meno, dove le differenze
sociali non sono ancora così marcate. Ha dell’Italia un’idea romanzata, glielo
spiego senza approfondire. E poi se ne va. Gli domando se andrà a votare, lui
risponde di no, che tanto non cambia niente, che tanto è tutto inutile e sono
tutti uguali. Gli rispondo che non è vero e che se vuole che le cose cambino
deve anche prendersi la responsabilità di fare un gesto, di esprimersi, che è già
un modo per avere del potere
decisionale. Gli dico di guardarsi un po’ intorno, di vedere i candidati, di
sentire cosa dicono e di provare a scegliere, perché è importante, scegliere,
per non restare senza voce, per non lasciare che siano altri a farlo per noi.
Ci pensa un attimo e mi dà ragione, ma chissà se ha votato davvero e poi per
chi.
In questi giorni è tutta un’analisi del voto, un
avvicendarsi di commenti su chi ha vinto e chi ha perso e come e perché. Io
ripenso a quella faccia senza conforto e senza nome, senza riferimenti né
fiducia nel mondo. Quella faccia che una
rappresentanza se la merita, quella faccia marginalizzata ed esclusa che
nessuno si gira a guardare. E ripercorro con la mente i commenti sulla campagna
elettorale ormai passata del primo turno, gli slogan sorpassati, le opinioni
sui candidati.
Su
Mélenchon, in particolare, si è discusso,
si è fatta molta ironia. Si è parlato di populismo e di retorica; lo si
è fatto passare spesso per una specie di pazzo fuori dalla storia; Hollande lo
ha sottovalutato e un po’ deriso, il sarcasmo sul “phénomen de campagne” si sprecava. A Sciences Po, dove tutti la
sanno lunga su tutto, Mélenchon si commentava come un animale strano. In almeno
due corsi mi sono sentita dire: “ecco, contrariamente a quello che dice nel suo
programma Mélenchon… “ Praticamente un estremista, ma anche un falsificatore
della realtà. Ed è vero che i suoi discorsi sono sempre carichi di retorica, è
vero che la sua critica è stata radicale, estrema. E’ vero pure che parte del suo programma è
irrealizzabile. Ma Mélenchon ha il grande merito di aver incentrato la campagna
elettorale sui valori della Repubblica, tutti e tre, a partire da quell’Egalité
messa da parte fino a rinnegarla, fino a dare per scontato che sia normale che
esistano sempre più facce, come quelle del ragazzo di Montmartre, che nessuno
si gira a guardare. E soprattutto ha avuto il merito di mettere in piedi una
critica forte, decisa, senza tentennamenti, ai valori incarnati da Le Pen.
Laddove lei ha spinto al terrore di fronte alla diversità, alla caccia allo
straniero, alla colpevolizzazione aprioristica dell’ “immigrato”, lui ha
ricordato l’importanza del meticciato, ha proposto il diritto di cittadinanza
per i nati sul suolo di Francia e ha indicato la necessità dell’integrazione
come antidoto alle divisioni che creano rancori e violenze; laddove lei si è
rinchiusa nelle mura della Francia, in un egoismo tipico dei nazionalismi, lui ha
parlato per la gente della Grecia, dell’Italia, della Spagna, del Portogallo,
in nome di una révolution civique et
citoyenne.
Jean-Luc Mélenchon è stato attaccato soprattutto per le sue
prese di posizione di fronte alla globalizzazione ed ai suoi effetti, ed ha
spaventato per il rigido egualitarismo delle
sue convinzioni economiche e quindi delle sue proposte. Ed il timore che
suscita è comprensibile, la storia ci insegna il pericolo delle degenerazioni
agli estremi. Il limite economico di
Mélenchon è quello con cui si scontrano tutti i tentativi di mettere l’economia
al servizio delle persone, è la manifestazione del dramma eterno di pensare il
socialismo laddove il liberismo pare abbia vinto. E lui dovrebbe limare i suoi
eccessi e ragionare realisticamente sul bisogno di conciliare libertà ed
uguaglianza, su come, nella pratica della vita vera, mettere insieme la
possibilità della realizzazione personale e il bisogno di garantire uno
standard di vita accettabile per chi non ce l’ha fatta, o non ce l’ha potuta
fare. E’ l’autoanalisi che dovrebbero mettere in atto tutte le sinistre
europee.
Eppure mi domando come possa un discorso più
incentrato sulla lotta allo strapotere dei mercati che sull’odio di classe,
spaventare più di parole che nascondono, ma nemmeno troppo, il nazionalismo
dietro i valori della patria, l’odio per il diverso dietro l’inno alla
protezione del sangue della nazione.
Il Front National di cui si canta la vittoria e che solo oggi fa paura sul
serio, come è facile fare allarmismo una volta che i risultati del voto sono
noti, è stato sottovalutato per anni, e mai attaccato direttamente nemmeno in
questa campagna elettorale. Anzi, a destra in qualche modo si è seguita la sua
scia, per cercare di attirarne l’elettorato. Non mi pare che qualcuno, al di là
di Mélenchon, abbia colto la possibilità, che partiti per definizione moderati
e di governo non hanno, di affrontare questa destra estrema di petto.
Ed è stato lui, molto più di Le Pen, ad essere oggetto
di critiche e di attacchi, sia chiaro, legittimi, in questa campagna.
Come è facile fare a pezzi le utopie, che per
definizione si astraggono dalla realtà, così sembra impossibile smontare discorsi
che si appoggiano sull’umanità degli istinti delle persone, così è difficile
contrapporre questioni di principio che, al cospetto del realismo estremizzato e
della retorica della vita vera, passano per parole vuote, incapaci di dare
risposte ad inquietudini e a timori che dei principi, nell’immediato, possono
pure fare a meno.
Si dice che
Marine Le Pen ha istituzionalizzato il suo partito, e in effetti lei è riuscita
a normalizzarne il discorso e la propaganda, a vendere la sua immagine
protettiva ed empatica laddove il padre mai era stato in grado di nascondere un
estremismo che anche oggi è presente, ma che è meno visibile perché nascosto
dietro una faccia di apparente buon senso. “Però tutto sommato non ha torto” è
l’atteggiamento tipico rispetto ai discorsi di Le Pen, una reazione istintiva
che nasce dai sentimenti immediati, quelli su cui lei basa il suo successo. Solo
fermandosi un attimo a ragionare si svela, dietro il suo volto di madre, dietro
la fierezza della donna che ce l’ha fatta, l’unione letale e pericolosissima di
esaltazione dell’individuo e superpotenza dello Stato, che fa venire in mente
senza che ci sia bisogno di una grande preparazione culturale, la retorica del
fascismo ancora in incubazione dell’inizio del Novecento.
Il Front National, a giochi fatti, ha preso il 18
percento dei voti. E’ un successo che non si può negare. Ma il fatto che in una
campagna elettorale il Front de Gauche sia passato dal 4 all’11, 7 deve
spingere ad andare avanti sulla strada che questo partito si è dato, che è
quella della lotta all’estremismo di destra prima ancora che al sistema così
come è fatto.
La critica sterile e senza argomenti reali di Le
Pen ad un establishment fatto da tutti all’infuori di lei, non è paragonabile
allo stile di Mélenchon, che nell’idealismo del suo pensiero se ne sta con i
piedi piantati per terra e sprona alla battaglia quotidiana per la giustizia
sociale, riconoscendo però senza ricatti e senza remore la necessità che la
sinistra tutta, pur non condividendone l’intero programma, sostenga Hollande al secondo turno. Questa è una presa di posizione seria, che indica un certo distacco dal personalismo e dal populismo di cui pure è stato accusato.
Mélenchon non è un pazzo, è l’esponente di una
sinistra che si interroga tra limiti e difficoltà su come rispondere alla
crisi, senza appiattirsi su posizioni conclamate e maggioritarie e senza
voltare le spalle ai lavoratori. Non so se tra quell’11, 7 percento di francesi
qualcuno, in assenza della sua candidatura, avrebbe votato Le Pen. Qualunque
sia la risposta, niente può togliere a quest’uomo venuto da Tangeri il merito
di essersi contrapposto direttamente ad una destra lasciata per troppo tempo
indisturbata, svelandone le incoerenze e le mistificazioni, contrapponendo ai
sorrisi bonari e ingannevoli, una faccia scavata, segnata dalle rughe, percorsa
dalla vita.
Ilaria, molto meditabonda, molto perplessa, molto boh.
p.s.
Leggo con tristezza e con rabbia che i fascisti a
Roma usano La Locomotiva di Francesco Guccini per i loro manifesti contro il 25
aprile.
Mi
piacerebbe capire se, a loro parere, ad i repubblichini di Salò (che senza
problemi ,né di coscienza né di interesse nazionale, hanno contribuito
direttamente a stermini e persecuzioni di massa che non sono solo
responsabilità dei nazisti), si adatti
anche questa frase, tratta dalla stessa canzone:
“ma un’altra grande forza
spiegava allora le sue ali
parole che dicevano gli
uomini son tutti uguali”
Potreste farvi un’analisi di coscienza, se solo l’aveste.
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