martedì 24 aprile 2012

Mélenchon, la Présidentielle, Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità e chi più ne ha...


Poco tempo fa mi è capitato un incontro interessante. Stavo seduta con Giulia sulle scale di Montmartre, come capita spesso nelle serate che iniziano al Rendez-vous des Amis e finiscono con lunghe chiacchierate, discorsi fiume, invettive varie e sfoghi più o meno seri sul corso della politica mondiale…
Dei poliziotti in borghese sono passati in macchina sul belvedere che si affaccia su Parigi, hanno fermato un ragazzo che andava contromano in motorino. Mi dico che questo poveraccio deve avere una sfortuna mortale: non avevo mai visto lì nessuno contromano, tantomeno contemporaneamente al passaggio di una volante. Ma tutto sommato è giusto che lo fermino, le infrazioni sono infrazioni. Solo che i poliziotti ci prendono gusto, tengono lì il ragazzo per una abbondante ventina di minuti. Lui se ne sta fermo, inquieto e a suo modo dignitoso, mentre gli altri aprono la sella, controllano i documenti, rovistano fra le sue cose, lo perquisiscono, lo accerchiano, gli fanno domande. E’ chiaro che oltre ad essere passato contromano non ha fatto niente. Però i poliziotti lo provocano e lui a un certo punto reagisce, alza la voce, gesticola. Parla un francese strano che indica che, lui, francese non è. Io gli vorrei legare le mani e tappare la bocca, dico, lasciali fare il loro lavoro, resisti un po’ in silenzio. Iniziano spintoni e qualche sberleffo, il ragazzo finisce faccia alla volante e schiena ai poliziotti. Il capo di turno sta lì, guarda, ogni tanto fa cenni e se ne rimane impettito nella sua porzione di potere. La serata sta passando anche oggi e c’è qualcosa da fare. Chissà cosa si prova a decidere della gente.


Intanto a noi si è avvicinato un ragazzo. Ci chiede un accendino e di dirgli cosa succede. Gli spiego la situazione, gli dico che secondo me stanno un po’ esagerando ma che tanto va così. Lui si siede, dice che è vero, che va così. Ha la faccia stanca e magra, di persona invecchiata presto nonostante i suoi ventitre anni. E gli occhi spalancati, vivaci e spaesati, in cerca di un senso a cui aggrapparsi,  tradiscono il sorriso accennato della bocca, malinconico e triste, come la postura un po’curva, tipica dell’incertezza e della timidezza. Ci chiede che cosa facciamo, glielo spieghiamo in breve, lui si complimenta, poi si lancia in un lungo discorso sulla sua vita, sulla voglia di andarsene, sull’impossibilità di vivere a Parigi, sull’assurdità di spostarsi nei quartieri ricchi per lavorare e tornarsene ogni sera dall’altra parte dalla città: dal sud ovest al nord est, nel  monolocale che costa uno stipendio, nonostante si trovi nella zona popolare degli ex quartieri operai e industriali. Dice che in Francia non c’è niente da fare, che lui sente sfuggirsi il futuro, ed emerge tra le righe la frustrazione per la segregazione che qui si vede e si vive, per la divisione tra quartieri separati come scompartimenti: guardare la rive gauche da lontano e saperla inarrivabile, inaccessibile come tutte le prime classi. Ci dice di approfittare di Parigi, di restarci e di farci dei soldi, perché qui i soldi ci sono, per poi spenderli “a casa vostra”, dove la vita costa di meno, dove le differenze sociali non sono ancora così marcate. Ha dell’Italia un’idea romanzata, glielo spiego senza approfondire. E poi se ne va. Gli domando se andrà a votare, lui risponde di no, che tanto non cambia niente, che tanto è tutto inutile e sono tutti uguali. Gli rispondo che non è vero e che se vuole che le cose cambino deve anche prendersi la responsabilità di fare un gesto, di esprimersi, che è già un modo per avere del  potere decisionale. Gli dico di guardarsi un po’ intorno, di vedere i candidati, di sentire cosa dicono e di provare a scegliere, perché è importante, scegliere, per non restare senza voce, per non lasciare che siano altri a farlo per noi. Ci pensa un attimo e mi dà ragione, ma chissà se ha votato davvero e poi per chi.

In questi giorni è tutta un’analisi del voto, un avvicendarsi di commenti su chi ha vinto e chi ha perso e come e perché. Io ripenso a quella faccia senza conforto e senza nome, senza riferimenti né fiducia  nel mondo. Quella faccia che una rappresentanza se la merita, quella faccia marginalizzata ed esclusa che nessuno si gira a guardare. E ripercorro con la mente i commenti sulla campagna elettorale ormai passata del primo turno, gli slogan sorpassati, le opinioni sui candidati.
 Su Mélenchon, in particolare, si è discusso,  si è fatta molta ironia. Si è parlato di populismo e di retorica; lo si è fatto passare spesso per una specie di pazzo fuori dalla storia; Hollande lo ha sottovalutato e un po’ deriso, il sarcasmo sul “phénomen de campagne” si sprecava. A Sciences Po, dove tutti la sanno lunga su tutto, Mélenchon si commentava come un animale strano. In almeno due corsi mi sono sentita dire: “ecco, contrariamente a quello che dice nel suo programma Mélenchon… “ Praticamente un estremista, ma anche un falsificatore della realtà. Ed è vero che i suoi discorsi sono sempre carichi di retorica, è vero che la sua critica è stata radicale, estrema.  E’ vero pure che parte del suo programma è irrealizzabile. Ma Mélenchon ha il grande merito di aver incentrato la campagna elettorale sui valori della Repubblica, tutti e tre, a partire da quell’Egalité messa da parte fino a rinnegarla, fino a dare per scontato che sia normale che esistano sempre più facce, come quelle del ragazzo di Montmartre, che nessuno si gira a guardare. E soprattutto ha avuto il merito di mettere in piedi una critica forte, decisa, senza tentennamenti, ai valori incarnati da Le Pen. Laddove lei ha spinto al terrore di fronte alla diversità, alla caccia allo straniero, alla colpevolizzazione aprioristica dell’ “immigrato”, lui ha ricordato l’importanza del meticciato, ha proposto il diritto di cittadinanza per i nati sul suolo di Francia e ha indicato la necessità dell’integrazione come antidoto alle divisioni che creano rancori e violenze; laddove lei si è rinchiusa nelle mura della Francia, in un egoismo tipico dei nazionalismi, lui ha parlato per la gente della Grecia, dell’Italia, della Spagna, del Portogallo, in nome di una révolution civique et citoyenne.

Jean-Luc Mélenchon è stato attaccato soprattutto per le sue prese di posizione di fronte alla globalizzazione ed ai suoi effetti, ed ha spaventato per  il rigido egualitarismo delle sue convinzioni economiche e quindi delle sue proposte. Ed il timore che suscita è comprensibile, la storia ci insegna il pericolo delle degenerazioni agli estremi.  Il limite economico di Mélenchon è quello con cui si scontrano tutti i tentativi di mettere l’economia al servizio delle persone, è la manifestazione del dramma eterno di pensare il socialismo laddove il liberismo pare abbia vinto. E lui dovrebbe limare i suoi eccessi e ragionare realisticamente sul bisogno di conciliare libertà ed uguaglianza, su come, nella pratica della vita vera, mettere insieme la possibilità della realizzazione personale e il bisogno di garantire uno standard di vita accettabile per chi non ce l’ha fatta, o non ce l’ha potuta fare. E’ l’autoanalisi che dovrebbero mettere in atto tutte le sinistre europee.
Eppure mi domando come possa un discorso più incentrato sulla lotta allo strapotere dei mercati che sull’odio di classe, spaventare più di parole che nascondono, ma nemmeno troppo, il nazionalismo dietro i valori della patria, l’odio per il diverso dietro l’inno alla protezione del sangue della nazione. 
Il Front National di cui si canta la vittoria e che solo oggi fa paura sul serio, come è facile fare allarmismo una volta che i risultati del voto sono noti, è stato sottovalutato per anni, e mai attaccato direttamente nemmeno in questa campagna elettorale. Anzi, a destra in qualche modo si è seguita la sua scia, per cercare di attirarne l’elettorato. Non mi pare che qualcuno, al di là di Mélenchon, abbia colto la possibilità, che partiti per definizione moderati e di governo non hanno, di affrontare questa destra estrema di petto.

Ed è stato lui, molto più di Le Pen, ad essere oggetto di critiche e di attacchi, sia chiaro, legittimi, in questa campagna.
Come è facile fare a pezzi le utopie, che per definizione si astraggono dalla realtà, così sembra impossibile smontare discorsi che si appoggiano sull’umanità degli istinti delle persone, così è difficile contrapporre questioni di principio che, al cospetto del realismo estremizzato e della retorica della vita vera, passano per parole vuote, incapaci di dare risposte ad inquietudini e a timori che dei principi, nell’immediato, possono pure fare a meno.

Si dice che Marine Le Pen ha istituzionalizzato il suo partito, e in effetti lei è riuscita a normalizzarne il discorso e la propaganda, a vendere la sua immagine protettiva ed empatica laddove il padre mai era stato in grado di nascondere un estremismo che anche oggi è presente, ma che è meno visibile perché nascosto dietro una faccia di apparente buon senso. “Però tutto sommato non ha torto” è l’atteggiamento tipico rispetto ai discorsi di Le Pen, una reazione istintiva che nasce dai sentimenti immediati, quelli su cui lei basa il suo successo. Solo fermandosi un attimo a ragionare si svela, dietro il suo volto di madre, dietro la fierezza della donna che ce l’ha fatta, l’unione letale e pericolosissima di esaltazione dell’individuo e superpotenza dello Stato, che fa venire in mente senza che ci sia bisogno di una grande preparazione culturale, la retorica del fascismo ancora in incubazione dell’inizio del Novecento.
Il Front National, a giochi fatti, ha preso il 18 percento dei voti. E’ un successo che non si può negare. Ma il fatto che in una campagna elettorale il Front de Gauche sia passato dal 4 all’11, 7 deve spingere ad andare avanti sulla strada che questo partito si è dato, che è quella della lotta all’estremismo di destra prima ancora che al sistema così come è fatto.
La critica sterile e senza argomenti reali di Le Pen ad un establishment fatto da tutti all’infuori di lei, non è paragonabile allo stile di Mélenchon, che nell’idealismo del suo pensiero se ne sta con i piedi piantati per terra e sprona alla battaglia quotidiana per la giustizia sociale, riconoscendo però senza ricatti e senza remore la necessità che la sinistra tutta, pur non condividendone l’intero programma, sostenga Hollande al secondo turno. Questa è una presa di posizione seria, che indica un certo distacco dal personalismo e dal populismo di cui pure è stato accusato. 
Mélenchon non è un pazzo, è l’esponente di una sinistra che si interroga tra limiti e difficoltà su come rispondere alla crisi, senza appiattirsi su posizioni conclamate e maggioritarie e senza voltare le spalle ai lavoratori. Non so se tra quell’11, 7 percento di francesi qualcuno, in assenza della sua candidatura, avrebbe votato Le Pen. Qualunque sia la risposta, niente può togliere a quest’uomo venuto da Tangeri il merito di essersi contrapposto direttamente ad una destra lasciata per troppo tempo indisturbata, svelandone le incoerenze e le mistificazioni, contrapponendo ai sorrisi bonari e ingannevoli, una faccia scavata, segnata dalle rughe, percorsa dalla vita.

Ilaria, molto meditabonda, molto perplessa, molto boh.

p.s.
Leggo con tristezza e con rabbia che i fascisti a Roma usano La Locomotiva di Francesco Guccini per i loro manifesti contro il 25 aprile.
Mi piacerebbe capire se, a loro parere, ad i repubblichini di Salò (che senza problemi ,né di coscienza né di interesse nazionale, hanno contribuito direttamente a stermini e persecuzioni  di massa che non sono solo responsabilità dei nazisti),  si adatti anche questa frase, tratta dalla stessa canzone:

“ma un’altra grande forza spiegava allora le sue ali
parole che dicevano gli uomini son tutti uguali”

Potreste farvi un’analisi di coscienza, se solo l’aveste. 

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