L’elezione del Capo dello
Stato è il momento più alto e solenne della vita repubblicana, ed in
questi giorni si è trasformato nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, o del
grottesco .
Sono tornati alla ribalta
i fantasmi più grigi della peggiore Seconda Repubblica e i metodi più loschi
della Prima, i più invertebrati arrampicatori sociali e i più andreottiani dei
redivivi democristiani, establishment
reazionario, cinici d’alemiani ed
ipocriti separatisti, nani e ballerine; tutti uniti dall’istinto di
autoconservazione di una classe politica di inetti, di ignoranti, nascosto
sotto il sostantivo più altisonante e sbeffeggiato: la Responsabilità.
Non sanno loro, questi uomini
piccoli, che la Responsabilità è quella di Tocqueville, di Kant, di Panagulis: la responsabilità di rispondere ai propri
doveri, dettati sempre da una morale disinteressata, universale e autonoma; la
responsabilità di fornire giustificazioni al proprio agire libero,
indipendente, intellegibile; la responsabilità di prendere posizione, delle
scelte di cui si porta il peso, come una croce, a testa alta.
Li guardo sfilare uno dopo l’altro e li
ascolto esprimersi nel loro modo banale, con frasi piatte, insensate, piene di
metafore quanto prive di subordinate, come se le immagini che evocano
servissero a riempire il vuoto miserabile dei contenuti, a nascondere ancora
l’irrazionalità delle loro scelte.
Ha sbagliato Giorgio
Napolitano ad accettare di farsi rigettare nella mischia di una politica sorda
ai problemi della gente e sempre pronta a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità,
nel realismo apparente che è solo incapacità di decidere. Mi chiedo quale
sentimento o quale logica l’abbia mosso, al di là della convinzione, figlia di
una lettura di questa fase storica che non mi sento in alcun modo di
condividere, della necessità di un nuovo compromesso storico, l’incubo dell’esacerbarsi
di una crisi sociale che però proprio questa classe politica, la sua
mediocrità, le sue scelte scellerate stanno contribuendo a fomentare. Profezie che si autoavverano.
La democrazia è altro dai
simposi di saggi rinchiusi a tessere le trame di un futuro migliore secondo la
loro apparente oggettività e sommessa ideologia; altro dai governi tecnici a
tempo indeterminato; altro, soprattutto dall’unanimità che nasconde il
compromesso, il baratto, la collusione. E’ il senso della democrazia come
chiarezza delle procedure – quella di un certo Bobbio - che in questi giorni
stiamo smarrendo mentre ci arrotiamo in dinamiche tragicamente decisioniste e
paternalistiche. Ed ecco l'apice della crisi.
Ed è quando la politica
diventa autistica che un periodo di
crisi, che dunque per sua stessa natura
poteva essere di apertura, di rinnovamento, di progresso si trasforma
nell’ennesima fase di conservazione. Ma l’Italia fuori dal Palazzo, a pochi
metri dal grande Transatlantico di cui parlano con una certa vezzosa tenerezza
i giornalisti borghesi, è una pentola a pressione, dove pure i più fedeli
giovani democratici occupano le sezioni e forse si ricordano di Gramsci, di
Contessa, della retorica pomposa ma autentica delle anime belle, tanto
necessarie e tanto vilipese da certi Massimo D’Alema.
L’Italia transennata
fuori da Piazza Montecitorio aspetta indolente e rabbiosa insieme, ed ha la
faccia pensionati, dei commercianti, degli operai, dei trentenni in eterna
attesa, della generazione dei miei ventenni perduti, che vanno a piangere tra le braccia di un comico,
cercando una risposta al loro sdegno nell’ennesimo imbonitore lasciato indisturbato
a prendersi cura della disperazione dei poveracci e dei disillusi che sono
sempre di più, che siamo tutti noi.
Ilaria
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