sabato 20 aprile 2013

Comiche all'italiana o della tragicità della politica


L’elezione del Capo dello Stato è il momento più alto e solenne della vita repubblicana, ed in questi giorni si è trasformato nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, o del grottesco .

Sono tornati alla ribalta i fantasmi più grigi della peggiore Seconda Repubblica e i metodi più loschi della Prima, i più invertebrati arrampicatori sociali e i più andreottiani dei redivivi democristiani,  establishment reazionario, cinici d’alemiani  ed ipocriti separatisti, nani e ballerine; tutti uniti dall’istinto di autoconservazione di una classe politica di inetti, di ignoranti, nascosto sotto il sostantivo più altisonante e sbeffeggiato: la Responsabilità.

Non sanno loro, questi uomini piccoli, che la Responsabilità è quella di Tocqueville, di Kant, di Panagulis:  la responsabilità di rispondere ai propri doveri, dettati sempre da una morale disinteressata, universale e autonoma; la responsabilità di fornire giustificazioni al proprio agire libero, indipendente, intellegibile; la responsabilità di prendere posizione, delle scelte di cui si porta il peso, come una croce, a testa alta.

Li guardo sfilare uno dopo l’altro e li ascolto esprimersi nel loro modo banale, con frasi piatte, insensate, piene di metafore quanto prive di subordinate, come se le immagini che evocano servissero a riempire il vuoto miserabile dei contenuti, a nascondere ancora l’irrazionalità delle loro scelte.

Ha sbagliato Giorgio Napolitano ad accettare di farsi rigettare nella mischia di una politica sorda ai problemi della gente e sempre pronta a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità, nel realismo apparente che è solo incapacità di decidere. Mi chiedo quale sentimento o quale logica l’abbia mosso, al di là della convinzione, figlia di una lettura di questa fase storica che non mi sento in alcun modo di condividere, della necessità di un nuovo compromesso storico, l’incubo dell’esacerbarsi di una crisi sociale che però proprio questa classe politica, la sua mediocrità, le sue scelte scellerate stanno contribuendo a fomentare. Profezie che si autoavverano.

La democrazia è altro dai simposi di saggi rinchiusi a tessere le trame di un futuro migliore secondo la loro apparente oggettività e sommessa ideologia; altro dai governi tecnici a tempo indeterminato; altro, soprattutto dall’unanimità che nasconde il compromesso, il baratto, la collusione. E’ il senso della democrazia come chiarezza delle procedure – quella di un certo Bobbio - che in questi giorni stiamo smarrendo mentre ci arrotiamo in dinamiche tragicamente decisioniste e paternalistiche. Ed ecco l'apice della crisi.

Ed è quando la politica diventa autistica  che un periodo di crisi, che  dunque per sua stessa natura poteva essere di apertura, di rinnovamento, di progresso si trasforma nell’ennesima fase di conservazione. Ma l’Italia fuori dal Palazzo, a pochi metri dal grande Transatlantico di cui parlano con una certa vezzosa tenerezza i giornalisti borghesi, è una pentola a pressione, dove pure i più fedeli giovani democratici occupano le sezioni e forse si ricordano di Gramsci, di Contessa, della retorica pomposa ma autentica delle anime belle, tanto necessarie e tanto vilipese da certi Massimo D’Alema.

L’Italia transennata fuori da Piazza Montecitorio aspetta indolente e rabbiosa insieme, ed ha la faccia pensionati, dei commercianti, degli operai, dei trentenni in eterna attesa, della generazione dei miei ventenni perduti, che  vanno a piangere tra le braccia di un comico, cercando una risposta al loro sdegno nell’ennesimo imbonitore lasciato indisturbato a prendersi cura della disperazione dei poveracci e dei disillusi che sono sempre di più, che siamo tutti noi.

Ilaria

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