lunedì 27 febbraio 2012

“Bella, che ci importa del mondo?”

 Ho messo la sveglia alle sette e mezza, e per tutta la notte mi sono svegliata convinta che fossero le sette e mezza. Una nottata strana e poi una mattinata convulsa, di cielo basso e con l’impressione che l’inverno finalmente sia finito. Esco di casa senza cappotto e chiudo a due mandate la porta. Ho lasciato una pentola da lavare. Pazienza, lo farò domani. Metropolitana, aeroporto, colazione, volo. Un’ora per aria come stare su un autobus, senza nemmeno un bagaglio, fatto salvo il mio panico da vuoti d’aria e turbolenze. Giulia, che si fa viaggi intercontinentali da quando è nata, deride le mie invettive variegate ogni volta in cui percepisco la  minima sensazione di non avere i piedi piantati per terra. E questo è essere ansiosi, aver paura molto prima che sia necessario farlo. Ho comprato La Repubblica, tanto per ricordarmi dove sto andando. In realtà leggo solo un articolo su Gramsci, pure brutto e abbastanza inutile a mio avviso, più di pettegolezzo su microscopici dettagli biografici che di sostanza sulla sua opera. Ma tant’è. Atterriamo un’ora dopo a Linate, ed è piena mattinata. Giulia blatera di pizza al taglio e di mortadella e si scaraventa contro il primo bancone di un bar, dove chiede un caffè macchiato, perché in Francia il caffè o è nero e lunghissimo, o è cappuccino con latte a lunga conservazione, o non è.  Io sono ancora stordita, mi viene l’istinto di andare a recuperare la valigia ad uno dei soliti tapis roulant affollati di gente convinta che se non afferrasse il bagaglio al primo giro, quello poi sparirebbe per sempre, risucchiato da uno di quei meandri nascosti degli aeroporti, che sanno tanto di dietro le quinte inaccessibili. Però la valigia non ce l’ho. Ho una borsa che è la stessa che uso per uscire la mattina e andarmene a SciencesPo. Seguo Giulia al bar e il caffè macchiato me lo prendo pure io, e nel frattempo ho già chiesto almeno due “pardon” e “merci”. Poi usciamo fuori e la sensazione che avevamo provato appena scese dall’aereo si moltiplica, si ingigantisce. C’è nell’aria odore di caldo, vento già tiepido e il sole sbatte fortissimo sull’asfalto delle strade. Da quanto tempo non vedevo quell’azzurro? L’Italia agli albori della vita nuova è qualcosa di eclatante, è l’apoteosi della gioia, è il colore che ritorna se stesso dopo le nuvole, la pioggia, la neve fastidiosa che ti bagna le scarpe, quella noia di stagione che è l’inverno. Non ho chiaro dove mi trovo, al di là della nazione evidentemente, e penso che quel Linate in cui mai ero atterrata potrebbe essere vicino a qualsiasi città, Roma come Firenze . C’è solo quella pianura sterminata a ricordarmi la geografia lombarda, rotta dalla mano dell’uomo, che l’ha riempita di grossi cubi di cemento, simboli di un potere monopolizzato e ben nascosto dietro i vetri a specchio. Ma non sembra di stare a Milano. Il ragazzo del tabacchi è simpatico, le persone chiedono informazioni con gentilezza; nessuno nell’autobus pieno e silenzioso che abbiamo preso per arrivare in centro guarda Giulia stranito, quando lei parla al telefono con la sua voce alta ed entusiasta. Ci penso io a lanciarle un’occhiata burbera di quelle mie, come a dire “guarda che qua le persone parlano la nostra lingua, e se urli ti capiscono tutti”. So essere di una pesantezza di cui ogni volta mi pento, ma che almeno ho imparato a riconoscere. Non capisco neppure io perché la guardo così, come se ci fosse qualcosa di male nell’aver preso un aereo da Parigi per stare un giorno in Italia, causa uno degli ultimi concerti della carriera di Fossati. E infatti smetto di fissarla con quel tono censore e mi metto a guardare fuori, Viale Corsica che è un rettilineo infinito che comincia proprio con l’aeroporto e finisce non so dove. Scendiamo a pochi metri da Piazza San Babila, uno dei miei tre punti di riferimento in una città conosciuta a tratti, e per merito o per colpa della mia amica Fra. In giro è pieno di gente e noi siamo già in maniche corte, accaldate dalla primavera o dall’entusiasmo. Giulia ora parla di pasta, io mi lamento perché ci sono in giro bambini mascherati. Ma carnevale non è finito!?!? Porca miseria, il carnevale ambrosiano. Ci buttiamo nel delirio del centro, che altro non possiamo fare. Via fra bombolette di schiuma e tentativi molteplici di  venderci maschere o coriandoli. Cerchiamo un ristorante, che abbiamo voglia di pasta. E intanto cammino e mi rendo conto mio malgrado che forse Milano è bella. Che sarà che oggi lo smog non si sente, saranno questi ragazzini vestiti da arlecchini o questi adulti sgargianti; sarà che è carnevale e la gente è proprio contenta, sarà il sole, sarà l’Italia, sarà  staccare la testa dall’università, sarà pensare a quanto mi sento bene per aver preso quest’aereo da Parigi e quanto sarà bello ritornarci il giorno dopo. Davanti al Duomo ci fermiamo un attimo, sembra messo meglio del solito anche lui. Poi guardiamo La Scala di lato, che la fame è più forte della voglia di fare del turismo. Nel ristorante un’elegantissima anziana e una quarantenne pronta a negare le sue iniezioni di botox ordinano “qualcosa di fresco e leggero” e parlano di “un evento che nasce come concetto di mercatino e diventa expo d’arte”… EH!??!. E’ pure la settimana della moda da queste parti. Ci mettiamo a fumare dopo il nostro pranzo di gnocchi e di ravioli in una piazzetta che sembra Bologna. L’aggettivo bello si spreca, realizziamo che forse la nostra gioia sta diventando melense, quasi sicuramente patetica. E nonostante questo la rivendichiamo, ridiamo di noi. E ce ne andiamo verso il Castello sforzesco e lungo il cammino c’è il Teatro Piccolo. E ancora mi rendo conto che questa città che a priori come tante cose avevo così spesso maltrattato, detestato, insultato, non è brutta né grigia né fredda, affatto. Giulia che ormai mi conosce mi invita a ragionare e a non parlare. “Ricordati che è una giornata particolare, non sarà certo tutti i giorni così. Ricordati che siamo felici per questo microscopico finesettimana. Ricordati che in questo stato mentale avresti amato qualsiasi città”. La voce di una ragione netta, inconfutabile.  
E allora camminiamo nei nostri vestiti francesi e io in quella che Fra ha soprannominato “questa giacca da lesbica”.
Ragiono sulla relatività dello spazio e su come la provenienza influenzi le nostre credenze sui posti in cui stiamo. Milano vista un momento con gli occhi di Parigi è piccolissima e umana; le persone si confondono nella loro diversità, sono una marea viva e vociante di grande imponenza, non appartengono a nessuno stereotipo. Sono gentili, sono scorbutiche, pronte allo scherzo e irascibili. E si snodano come tentacoli lungo le strade, le riempiono dei loro discorsi seri e velleitari. Mi ricordo di quello che avevo letto su Milano nelle pagine di Rossana Rossanda, del suo definire quella città come l’avanguardia d’Italia, il centro da cui le influenze che vengono da fuori si sintetizzano e iniziano a diramarsi a meridione, il punto di contatto con l’Europa e col  mondo. Deve avere ragione perché io sento di stare in un posto che è Italia e basta e che all’improvviso non ha nessuna connotazione. Questo sole giallo non mi sembra così diverso da quello della mia Formia stretta dalle montagne sull’acqua del golfo. E anche quell’odore senza nome, ma che ti fa dire per un secondo “casa”, anche lui è simile. Sento mia madre al telefono per il suo compleanno e la sento per un momento raggiungibile, vicina. L’Italia è troppo piccola perché le distanze che ci sembrano invalicabili esistano davvero. Siamo tutti più simili di quanto non ci piaccia credere, un po’ statici nel nostro proverbiale, atavico campanilismo inventato. Non temo quel miscuglio di individui e non mi sento giudicata come mi era capitato le altre volte in cui ero approdata in questa città, venendo dal sud e dall’adolescenza. Mi sento cittadina di un mondo troppo vasto perché dal mio aspetto si possa riconoscere la storia breve che mi porto appresso. Mi confondo in una folla di individui qualunque e ciascuno a suo modo e mi sento bene.
Incontriamo Fra che si muove nel suo ambiente perfettamente a suo agio e per la prima volta sento di non dovermi nascondere dietro lei, ma di poterle camminare affianco. Chiacchieriamo tra un bicchiere di vino e un attimo di sarcasmo. S’è fatta sera e le luci dei lampioni illuminano adesso le vetrate del Duomo, che noto per la prima volta e che sono così belle. Io e Giulia ci avviamo verso la stazione, un altro autobus e poi il Teatro degli Arcimboldi, che sarebbe raggiungibile a piedi in una passeggiata di trenta scarsissimi minuti, se non l’avessero collegato al centro con quella specie di tangenziale desolante. Al concerto di Fossati vige un religioso silenzio, che io trovo in certi casi controproducente. Mi dico che se fossi un cantante e la gente non cantasse  le mie canzoni ai concerti io un po’ mi deprimerei. Lo ripeto a tutti da due giorni e tutti mi dicono che i concerti di Guccini hanno fuorviato la mia visione delle cose. È possibile, ma io il religioso silenzio non lo rispetto e ci scappa proprio una bella cantata urlata e liberatoria sull’ “e mi sogno i sognatori che aspettano la primavera o qualche altra primavera da aspettare ancora…”.
Fra ci ospita nella sua casa di Monza per la notte. Grace mi fa finalmente le feste. Peli di cane buono, felice. La mattina dopo colazione con due cornetti alla crema e Maurizio che per pranzo arrostisce polli e ci fa un antipasto a base di mortadella che quasi quasi ci commuove. C’è ancora il sole e Monza rilassa, è domenica mattina e le pasticcerie hanno code di padri di famiglia in attesa dei loro bignè; i bar pullulano di vecchi che discutono di Juventus e di Milan. Sembrerebbe davvero di stare a casa, se l’accento fosse tendente al napoletano e non brianzolo. Ma il carattere è proprio lo stesso. Dopo pranzo ce ne andiamo in aeroporto, e nel giro di mezz’ora siamo sull’aereo che ci riporta a casa, in preda a uno schema di Bartezzaghi  che mi pare di non aver visto per anni. Parigi è nuvolosa, e le boulangeries sfornano baguettes e pani al burro di ogni tipo e dimensione. Me ne ritorno alla mia Porte de Clignancourt e in un momento di relax e di pensieri affollati mi metto ad ascoltare radio tre. C’è Nanni Moretti, una sorpresa che mi sembra fatta apposta, e che mi fa sorridere. E mi addormento stordita da questi due giorni inconsueti e meravigliosi, fuori dal tempo davvero. E stamattina mi sveglio e fuori c’è il sole ed è forte, l’aria è pulita e se non vedessi qui vicino la fermata della metro e se la gente non parlasse questa lingua meravigliosa che è il francese, sembrerebbe proprio di stare a casa. E a casa ci sono; la mia ennesima casa fra le tante che ho vissuto, questo crocevia di boulevards, questa pianura interrotta da una punta sola, questo mare di palazzi eleganti, questa Babele di kebab. E di pane e salame. 

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