mercoledì 22 febbraio 2012

Lettera apertissima, o le risposte che non ho dato

Non ho seguito un consiglio che mi è stato dato; quello di evitare di pensare a determinati discorsi con cui sono stata inondata per non distogliermi dal mio raccoglimento amendolian-fumatore. Non fumo tabacco pensando ad Amendola, non mi diletto a spendere tempo coltivando una presunta profondità che non mi appartiene o che, se mi appartiene, con un atteggiamento di chiusura o di banalissima, comunissima riflessione, non può che restare uno sterile accumulo di nozioni. Però in questi giorni ho fumato tabacco pensando alla società, al perché la ritengo così importante, al perché sono di sinistra, al perché vado affermando il mio amore per Parigi giustificandolo con il fatto che qui ci si sente inosservati. Soprattutto, in questi giorni ho fumato tabacco insultandomi in silenzio per non essere riuscita a rispondere a nessuna di queste domande, quando mi sono state poste, e per essermi sentita la chiesa su cui un simpatico individuo ha defecato. E la risposta qui è facile. Non mi sento a mio agio davanti al plotone di esecuzione. Non è rilassante partorire risposte sapendo di dover pesare ogni parola perché di ogni tua affermazione verrà messa in risalto la contraddizione rispetto a qualcosa che avevi affermato poco prima, o l’assenza di una base valida su cui fondarla. Si genera in quel caso il meccanismo mentale che per anni mi ha portata a non fare mai una domanda a lezione, a non intervenire mai in un dibattito; quello che ti porta a ragionare talmente tanto su una cosa intelligente da dire per non sfigurare, che le plausibili conseguenze sono solo due: o viene alla luce il pensiero più inutile che la mente umana abbia mai creato, o stai in silenzio in una completa,benché apparente, mancanza di idee. Ora, io non sto certo qui ad accusare nessuno di essere un plotone di esecuzione, potrei essere io a sentirmi il condannato in modo del tutto ingiustificato, o per una paranoica mania di persecuzione. L'ardua sentenza, sempre, ai posteri. E’ sempre una questione di percezioni e di punti di vista. E il mio punto di vista mi ha portata più volte a chiedermi, in una conversazione (leggi monologo) in cui mi sono imbattuta qualche giorno fa, se l’interesse del mio interlocutore fosse conoscere quello che pensavo su determinati fatti, farmi rendere conto dell’abisso di ignoranza in cui, a suo modo di vedere, vegeto, oppure testare la mia progressione intellettuale (paroloni, ma è per rendere l’idea) per capire se avesse davvero avuto senso parlare con me e se, nel caso, avesse senso parlarci ancora. Delle tre, l’ultima mi sembra fuori da ogni dubbio la più veritiera. E anche la più assurda. Dal mio punto di vista, è chiaro.
Detto questo non vedo nessuna contraddizione nel fatto che contemporaneamente affermo di stare bene a Parigi perché qui si può stare anche da soli e di assegnare grande importanza alla coesione sociale.
Nella prima affermazione c’è niente altro che un bisogno di indipendenza e di libertà. Non siamo nati per mettere tutta la nostra vita in comune con gli altri, ma anche per poter essere indipendenti, in mezzo agli altri. Si è liberi anche quando non si sente lo sguardo e il giudizio della gente addosso, condizione che chi viene dalla provincia capisce perfettamente. Si è liberi quando si è ignorati perché ciò significa che la gente che ti circonda ha imparato ad accettare comportamenti e stili di vita diversi dai suoi come dati di fatto su cui non si ha il diritto di sindacare, perché rientrano nella sfera della vita privata di ciascuno. Questo non significa volontà di mettersi al riparo dal mondo, ma mischiarsi, con le proprie personali e opinabili peculiarità, in una gigantesca  moltitudine di individui liberi di essere come vogliono.
La coesione sociale è un’altra cosa e rientra nell’ambito pubblico. Come gli uomini non sono fatti per mettere tutta la loro vita in comune, non sono neanche fatti per passare tutta la loro beata esistenza in uno stato di autarchia totale, ad eccezione del Nanni Moretti dei tempi prima dell’oro. E questo lo dimostra una banale constatazione della realtà. Perché dovrebbero esistere le famiglie, o i gruppi di amici? Perché altrimenti l’uomo dovrebbe sentire la necessità di consultarsi continuamente con i propri simili, di ricercare punti di vista diversi oppure di omologarsi per sentirsi appartenente ad un gruppo di pari? E tu dirai, non lo so ma forse lo dirai, che la socializzazione primaria e secondaria  non rispondono a dei bisogni individuali, ma servono ad indirizzare gli individui verso comportamenti accettati dagli altri e che non sono naturali, ma costruiti perché utili al modo in cui la società stessa funziona e si riproduce. Ed io con questo fatto sono solo parzialmente d’accordo. Perché se è vero secondo me che la società, per sopravvivere nelle sue forme, richiede persone in grado di stare fra gli altri in un modo a lei funzionale, è pure vero secondo me che lo stato di natura di Locke è completa finzione e che gli uomini non hanno dato vita agli stati ed alle società perché erano talmente buoni, bravi e razionali da farsi venire in mente un’idea ancora più buona, brava e razionale e capace di rendere ancora più efficace il godimento di diritti già esistenti nello stato di natura. Io credo che gli uomini abbiano dato vita agli stati ed alle società per una volontà di controllo reciproco, per sentirsi tutelati da ogni rischio di prevaricazione, per poter vivere pacificamente in mezzo agli altri, condividendo i beni pubblici e lavorando per guadagnarsi quelli privati, finalità per cui è valsa la pena rinunciare ad un pezzo della propria autonomia. La società plasma gli uomini ma è fatta di uomini e da loro a sua volta è plasmata per rispondere ad interessi che loro hanno e che percepiscono come fondamentali.
E qua veniamo alla giustizia sociale. Perché dovrebbe avere così tanta importanza? Perché solo se tutti hanno la possibilità di scegliere e di lavorare per costruire la vita che hanno in mente e che desiderano allora tutti sono liberi. Libertà non è libertà dagli altri, ma libertà con gli altri. E se è vero, come diceva Simone Weil, che la si raggiunge solamente con l’alienazione del lavoro che ci dà la possibilità di vincere noi stessi, è pure vero che se una gran parte delle persone non fa che vivere in uno stato di alienazione fine a se stesso perché privo di qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni proprie o di chi verrà dopo di lui, allora vivere non è che una ripetizione automatica di gesti  senza alcuna finalità per sé, fino al giorno in cui si muore. Un minimo di giustizia sociale è necessario per garantire a tutti il godimento della propria umanità. E allo stesso tempo dal momento in cui si sta in delle società fatte di regole che abbiamo scelto di mettere in piedi, visto che nessun dio le ha imposte,  allora quelle regole vanno rispettate. Dal momento in cui mettendosi con gli altri gli uomini hanno rinunciato ad una parte della loro autonomia, non è più un comportamento sociale quello dell’individuo libero da ogni restrizione rispetto a quello dell’altro talmente costretto dal suo stato di necessità da diventare schiavo di tutto. A quel punto nella società non ci stiamo più. A quel punto siamo in una specie di grosso stato di natura, fatto di diffidenza reciproca, di solo individualismo e ancora di lotta e di prevaricazione, a cui i soggetti più potenti hanno dato una parvenza normativa mettendo delle regole a privilegio di se stessi e a discapito della maggioranza, spacciandola per una condizione utile a tutti.
Per questo mi sento una persona di sinistra, perché gli uomini stanno insieme per tutelarsi insieme ed è possibile farlo solo se tutti hanno la possibilità di emanciparsi dalla propria condizione di partenza. L’uomo alienato non è uomo; l’uomo schiavo non è uomo.
Bene, ho risposto all’interrogazione con questo mediocre compitino che tutto sommato ho affrontato per il gusto che ho di mettermi in discussione, di espormi al giudizio o, che ne so, in modo masochistico al pubblico ludibrio. Ma i commenti non li temo, la sensazione di partecipare alla mia derisione mi infastidisce decisamente di più.
Con la coscienza apposto, i puntini sulle “i” e tante scuse a poveri ,immensi pensatori da cui derivo le mie idee,

Ilaria

p.s.  Ora potrò dedicarmi di nuovo ad altre e più basse attività, tipo leggere Memorie di Adriano. Così poi potrò fumare tabacco anche pensando a Yourcenar.

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